Un uomo incapace di dormire, un vecchio boscaiolo, un pescatore e una lebbrosa nel mondo che fu prima del Diluvio Universale
Conclusa: No
Fanfiction pubblicata il 04/09/2008 13:00:22 - Ultimo inserimento 23/09/2008
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Stasera l'aria è immobile, e la notte è gelida. La luna è un occhio d'avorio sospeso nel cielo.
I miei compagni giacciono addormentati accanto a me, sprofondati nei loro sogni tempestosi. Ma io sono sveglio, qui davanti a questo focolare, in compagnia dei miei ricordi.
In solitudine.
Era il quarto ciclo di sole, quando il cielo non aveva macchia di nuvola e il grano maturava nei campi. L'alba sorrideva ai raccoglitori con raccolti generosi, e la terra era calda sotto i piedi, i bambini giocavano seminudi fra le ombre degli alberi come piccole farfalle innocenti. Io intessevo cestini di vimini insieme a mia sorella e mia madre. Ricordo ancora il loro profumo, e la loro voce, nonostante sia passato così tanto tempo, e ricordo mio padre che partiva per settimane di villaggio in villaggio, a vendere le ceste, e le candele profumate. Non ho molti ricordi lui, ma so che era un uomo forte, i briganti avevano già assaggito la lama del suo falcetto e non rischiavano più le loro membra per un così modesto bottino. Così nel mio villaggio ero io ad avere responsabilità della famiglia, in sua assenza. Ricordo mia sorella Ofelia, orgogliosa e forte, che cacciava con i maschi con l' arco e la freccia; era la disperazione di mia madre che sognava di vederla unita ad un uomo giusto. Sognava di legare i capelli di sua figlia con fiori colorati, tingerle le mani dei segni rituali e profumarla di essenze rare. E sognava nipotini maldestri da tenere sulle ginocchia.
Io era più piccolo di mia sorella, e non credo che i ragazzotti che desideravano la sua compagnia rimanessero molto impressionati dalle mie minacce. Nonostante agitassi sotto le loro gole il mio falcetto vedevo dei sorrisi nelle loro scuse. Sapevano che se non avessero rispettato me avrebbero dovuto scontrarsi con mio padre, al suo ritorno.
Adoravo la mia vita, adoravo la mia famiglia, il mio villaggio, i miei amici e le loro storie. Adoravo il freddo pungente e terribile dei tempi di ghiaccio, quando le pelli con cui ci vestivamo non riusciva a scaldarci e così correvamo intorno ai fuochi, adoravo il tempo delle foglie cadenti, quando raccoglievamo funghi e piante in posti segreti fra i boschi.
Adoravo l'odore del legno, dei respiri e del vento.
Vivevo ogni giorno cullando il mio segreto, il piacere ambiguo di discernere le fragranza delle cose senza vederle; l' odore dei colori nella mistura, del nido posto sul ramo più alto, e l'erba selvatica, la pioggia il cibo...la vita, e la morte. Ma ciò che più preferivo era l'odore di mia sorella Ofelia, era l'odore della dolcezza dietro la fermezza, l'incanto misterioso di un fiore nascosto; in lei era sentivo una varietà di sensazioni, miscele amare che mutavano in sospiri leggerissimi, che mutavano ancora e ancora.
Come mia madre la volevo felice, più di quanto desiderassi la mia felicità.
Fu in questa stagione calda, che mi svegliai nella notte colpito da un'odore terribile, di cera e sudore. Ma non era l'odore della cera del nostro magazzino, era come di candele intrise di tempo, e silenzi.
D' incenso.
E poi l'odore pulsante della lussuria, ma in quel momento era troppo simile al sangue putrido perchè lo potessi capire a fondo.
Uscii nella notte a controllare, con le mani gelide. Una sentinella urlò, ma prima che i nostri soldati di campagna si potessero organizzare eravamo già stati assaliti. Era una notte chiara, più luminosa delle fiaccole accese, e li vidi scalare i tetti al di sopra delle case, li sentiii spezzare i recinti e le barricate. Erano nudi come i santi profeti, nudi e splendidi come le statue protettrici dei templi, ma i loro volti erano straziati da ghigni bestiali, li vidi allungare le braccia a ghermire il bestiame.
Non avevo visto nè lupo nè uomo nutrirsi così, mordendo con un tale odio la carne squarciata che si dibatteva tra i loro denti. Un'altro tratteneva una mucca gravida tra le corna la scaraventò a terra come un tronco e rimasi a guardarlo mentre infilava il suo braccio nell'utero della bestia per strapparne il feto; se ne rimpì la bocca fino a lordarsi di sangue. L' odore di terrore tracimava come tempesta, a riempire l'aria come nebbia, e compresi che ero io, io che correvo alla casa, pregando perchè potessimo volare via dall'incubo.
Gli uomini più coraggiosi affrontavano quei mostri con l'arco e la freccia, li assaltavano con le spade e venivano schiacciati e rotti come bambole, o catturati e presi tra le mascelle, e le risa come strida come maledizioni, sulla terra e il fieno, sul il legno e sull' acqua. Come bambini fra i giocattoli, rincorrevano le persone con cui avevo riso e pianto, per spezzarli, aprire i loro stomaci, e l'odore di quegli intestini aperti stordiva l' anima, annaspavo e scivolavo, in una notte cieca. Scavalcai uno steccato tenendomi lontano da quegli esseri, la terra percossa dalle loro corse, dalle loro danze, e il mio corpo si fece di pergamena quando sentii le loro voci provenire da casa mia, e oltre le case, sopra i tetti sentivo il loro tanfo, proprio davanti a casa mia,
madre
padre
Eloisa o buon dio, fà che siano fuggite, ti prego Dio misericordioso salvale.
Il mio piede scivolò sul terreno, e inghiottii con forza quell'aria fangosa, tentando di calmarmi, di guardare senza essere guardato, e da dietro la terracotta del muro in cui mi rifugiavo vidi Eloisa in piedi, sul sangue e su i vestiti di mia madre. Poteva essere un'altra persona, poteva, ma non lo era, no, ma Eloisa era viva. Gridava e chiamava il mio nome con le spalle al muro e il mio falcetto tra le dita, i miei piedi erano piantati a terra il cuore troppo veloce. Erano in tre, accovacciati come corvi albini, sentivo quell'odore terribile di sangue e sudore che cresceva e gli ruppero le ossa lì davanti ai miei occhi gli strapparono i capelli come si strappa l'erba, squarciarono il suo viso con le loro unghie, mentre io ero lì, immobile, senza respirare immobile, nascosto come un topo vidi il sangue di mia sorella che scivolava lungo le sue gambe, e allora implorai al cielo le stelle gelide e impotenti che pendevano inutili, e le mie preghiere contro le sue urla, e il mio nome fu maledetto. Non uscii a difendere la persona a me più cara, ma rimasi lì, ad attendere che se ne andassero, che tutto finisse e così li vidi riunirsi nella piazza, sedersi e ridere, ballare intorno a fiamme di corpi bruciati, bere il vino invecchiato tenuto nelle cantine, masticare i corpi dei bambini decapitati. Avevano smesso di cacciare coloro che vedevano, così qualcun altro rimase come me a guardarli, impotenti, dietro ai loro portoni sprangati. Si addormentarono sulla strada come bestie, e allora qualcuno scese dall'ombra e scagliò loro delle frecce. Vidi i loro corpi aprirsi e sgorgare sangue, come umani, ma le frecce non rimanevano incastrate nel corpo e scivolavano via senza lasciare ferite. Coloro che avevano osato svegliarli furono afferrati e appesi urlanti agli alberi del paese. Venne l'alba e il giorno, le mosche già si impadronivano delle strade e dei giardini con i resti del massacro, e loro si svegliarono e se ne andarono.
Allora riuscii a muovermi, e andai da mia sorella Eloisa che giaceva nel sangue torbito di mia madre. Era ancora viva.
Le sue ferite non erano profonde, ma il suo volto era scarnificato, e ciò che avevano fatto l' aveva annientata. Mia sorella non sorrise e non parlò mai più.
Quella notte mi privò della capacità di sentire gli odori.
Vale la pena attendere per le tue storie. Al dì là dell'intrigante universo del brodo primordiale della Genesi i miei (soliti ^_^) complimenti vanno alla tua abitudinaria qualità di creare un climax avvincente, arguto, violento e asciutto colorito da una realistica interpretazione. Interessanti anche le scelte narrative, come la donna maledetta del secondo capitolo che ha stimolato con forza la mia immaginazione. Sempre immenso.
Sempre immenso.