da una serie originale:
"TROPPO OLTRE"
una fanfiction di:

Generi:
Sentimentale - Drammatico - Introspettivo
Rating:
Per Tutte le età

Anteprima:
All'indomani, il tormento di colei che desiderò qualcuno ben al di là della sua portata, in vita come nella morte

Conclusa: No

Fanfiction pubblicata il 24/04/2009 19:17:29 - Ultimo inserimento 13/05/2009
 
ABC ABC ABC ABC



 SALITA


<i><b>“Eloì, Eloì, lamà sabactanì?”
(Marco, 15.34)</b></i>



Era un desolante pezzo di roccia, ricoperto di sassi ed erbacce, che appena usciti dalla città spuntava dalla terra e pretendeva di farsi chiamare monte. Quella mattina a salire su per il sentiero che conduceva alla sua cima non sembrava quasi una donna.
Era più come una larva, una squallida figura senza forze e senza più anima che incespicava traballante su quella salita neanche tanto ripida.
Prima non era così. Ma troppo dolore in troppo poco tempo aveva dovuto patire. Troppe cose orrende aveva veduto, e più lacrime che in tutto il resto della sua vita aveva versato, tutto in una sola giornata.
Era stato quel dolore a trasfigurarla, dentro come fuori. Ogni cosa visibile in lei richiamava alla desolazione che si spandeva in lei: i suoi sandali, fino a ieri sicuri ad ogni passo e su qualunque terreno, ora avevano le suole logore per il troppo cammino ed avvolgevano piedi altrettanto stanchi di avanzare a cui ogni sassolino calpestato arrecava dolore, come fosse scalza; la sua veste, e il velo con cui copriva la chioma scura, non erano più dei vestiti, erano delle mere pezze, logore ed ondeggianti su quel corpo martoriato dall’affanno eppure così giovane e bello; il suo viso, che prima affacciava ridente al mondo lasciandolo accarezzare dalla luce, stava adesso rannicchiato all’ombra del velo, invisibile e inespressivo.
Gli occhi che aveva erano quelli di chi non più cammina ma si trascina, di chi non si muove con volontà propria ma lo fa e basta, di chi ne sente il bisogno eppure non ha né la fretta né la voglia di soddisfarlo.
Saliva senza accorgersene.
Saliva lenta.
Saliva sapendo che non c’era nulla ad attenderla lassù se non altro dolore.
Saliva un'altra volta, senza alcuna folla urlante intorno.
Sola.

“Che strano” pensò guardando verso l’alto “Si è fatto di nuovo tutto coperto.”
A metà del cammino il sole era sparito, come fosse rimasto giù.
“Nemmeno il sole vuol più venire qui.”
Lei invece avrebbe continuato per la strada, lasciandoselo alla spalle, lasciandolo in basso. Non che prima lo avvertisse o ci facesse maggiore caso.
Non era quello un luogo che piaceva a molti d’altronde. Persino nelle macchie d’erba, che sbucavano ai lati del viottolo in lunghi fili non udiva il fruscio di un topo, di una lucertola, o di un qualunque vivente. A terra neanche una formica o un semplice insetto.
No, nessuno voleva venire lì.
Almeno quando non era in programma alcuno spettacolo.
Si arrestò per alzare nuovamente lo sguardo, nel tentativo di intravedere la cima: nessun bagliore anche piccolo le rivelò il volto, a renderlo appena più visibile fu solo un grigiore un po’ meno scuro di quello del suo velo.
Lo tolse dalla testa mettendoselo sulle spalle, scuotendo intanto i capelli che ricaddero lungo la schiena in una cascata di ricci castano scurissimo.
Poi riprese a muoversi; il prosequio del percorso fu un peggiorare continuo. Avvicinandosi alla cima i passi, anziché alleggerirsi in una aere più alto e lieve, si appesantivano, le nuvole si facevano più fitte, e oltrepassata un’ennesima curva sul fianco della roccia ebbe l’impressione che si fosse fatto freddo.
Del resto si era alzato il vento.
All’inizio non gli diede retta, così fu lui a farsi notare con una ventata più forte che la costrinse a fermarsi e trattenere le proprie lunghe vesti smosse.
“Il tempo qui è rimasto lo stesso da ieri.”
Meditò di andarsene: se voleva struggersi poteva benissimo restare a farlo insieme agli altri anziché avventurarsi tutta da sola e con fatica lì in alto. Non diede però ascolto a quelle voci dentro di sé che, pietose della sua triste e patetica condizione, la incoraggiavano a tornare e a risparmiarsi lo strazio di quegli ultimi passi.
Lei li compì, strisciò fino all’ultimo. Tanto ora era solo la parvenza di un essere umano: la sua luce, la sua speranza e la voglia di vita, di vera vita, che l’aveva animata erano finite il giorno prima proprio lì, ormai era solo un guscio vuoto. Arrivata a quel punto, a farla ridiscendere non sarebbe stata certo una fatica che più non sentiva, al massimo un altro forte spiro dell’aria.

La cima la accolse in tutta la sua sconcertante desolazione da luogo di sentenza e condanna, di esecuzione e di morte: anche il vento si era fatto debole e quasi immoto.
Tre scheletrici alberi senza rami né foglie incombevano sulla misera appena giunta, riservandole un accoglienza da gelare il sangue. I suoi occhi davanti quello spettacolo si smarrivano e si ritrovavano su quello centrale, che solo a lei appariva più alto degli altri ai suoi lati.
La loro forma era identica per tutti e tre.
Quel segno disgustoso che solo i peggiori di tutti potevano meritare.
La croce.

Sulle due a destra e sinistra erano stati lasciati i corpi.
Uno la fece sussultare a prima vista tanto era orrendo: il cadavere, intorno al quale ronzavano già le mosche, aveva la faccia distorta dal dolore patito sino all’ultimo istante, e la bocca spalancata come in un urlo; il collo era teso verso una spalla e la testa cadeva leggermente all’indietro; doveva essersi contorto parecchio. I corvi già si occupavano di lui: non aveva più in occhio, uno dei neri volatili si stava accaparrando l’altro, un secondo poggiato su uno dei bracci di legno come su di un trespolo gli beccava le dita ed un terzo stava arrivando a posarsi sull’altro braccio.
Il secondo era abbastanza diverso. Mosche e corvi c’erano anche da lui e non gli riservavano un trattamento migliore, ma quel cadavere lasciava cadere la testa in avanti sul petto e il suo viso, rivolto a terra, per il momento era stato risparmiato; non ne vide l’espressione, anche perché aveva ribrezzo di quei corpi macilenti, ma constatò che almeno lui aveva avuto una fine certamente meno dolorosa di quell’altro.
Il terzo non c’era.
La croce centrale non aveva nessuno appeso su di essa.
Facendo risuonare i suoi passi le si mise davanti: non come chi sfida, ma come chi vuol lasciarsi schiacciare.
Qualcosa c’era ancora, notò.
Macchie di sangue. Percorrevano come tintura le venature del legno, ravvivandolo col loro mortale colore.
E sulla cima il cartiglio appeso ad un chiodo. In tutta quella rovina e desolazione quel piccolo foglio di pergamena quasi nuovo era l’unica cosa lì intorno a non apparire pronto a ridursi in polvere come i due cadaveri, o lei stessa.
I suoi lembi svolazzavano per il vento.

<b>I</b><i>esus</i> <b>N</b>a<i>zarenus</i> <b>R</b><i>ex</i> <b>I</b><i>udaeorum</i>

“Rabbì…” pronunciò l’afflitta, davanti il patibolo dell’uomo che voleva vedere e che sapeva non avrebbe trovato lì.
Certo. Lo stesso giorno della sua morte, qualcuno era andato a chiedere al governatore il permesso di toglierlo da lassù.
C’era anche lei, la sera prima, quando senza vita l’avevano adagiato di nuovo sulla terra; come anche era presente al momento in cui avevano chiuso il sepolcro.
Lo stesso masso che aveva visto frapporsi tra di essi e il maestro l’aveva accompagnava col suo peso per tutta la salita appena compiuta, ed era certa che mai l’avrebbe abbandonata.
Sotto quel fardello piegare le ginocchia davanti al legno fu cosa di estrema semplicità.
La guardò, sporca e scura, zitta e ferma, altissima e solitaria.
Eccola, colei che ha vinto, si disse.
Colei che aveva piegato il famoso Gesù di Nazaret, il grande predicatore, il profeta, il nuovo Elia, il nuovo Giovanni il Battista, il bestemmiatore e il malfattore.
Colei che ne aveva disperso gli estasiati seguaci, anche quelli più fedeli.
Colei che aveva detto l’estremo no a chi andava parlando soltanto d’amore.
Colei che aveva detto basta ai suoi bei discorsi da visionario.
Colei che aveva avuto l’ultima parola e che ora riceveva gli omaggi della donna inginocchiata.
Così probabilmente avrebbe pensato di sé stessa quel patibolo osservando la scena.
La donna invece non era venuta lì per adorarla, per quanto le riconoscesse il suo innegabile trionfo.
Come il cane garbatamente trattato ed addestrato torna sempre al padrone, così il discepolo si reca alla tomba del precettore da cui molto ha attinto con gioia ed ammirazione.
Ma non era venuta lì semplicemente come sua da lungo tempo proselita.
Come alla scomparsa di un uomo valente i bravi oratori fanno a gara per poterlo lodare per primi, così gli allievi tessono le lodi del proprio mentore per tramandarne l’insegnamento e difenderne la memoria contro le malelingue dei suoi avversari, e animosamente, senza troppo ragionare se fosse egli nel giusto o nell’errore.
Eppure non era lì per sfogare in un trasportato soliloquio la sua amarezza, celebrando la grandezza del suo insegnamento che ormai tutti nella regione conoscevano bene, denigrando i turpi e gli ipocriti che avevano permesso la sua esecuzione.
Non era il suo insegnamento che intendeva rievocare, nel silenzio, nella propria mente. Ma lui e basta.

Un altro motivo che l’aveva spinta proprio in quel luogo anziché nell’altro era la paura dei giudei: c’era il rischio che qualcuno vedendola vicino il suo sepolcro l’avrebbe trascinata parimenti davanti al Sinedrio per il giudizio; per quello stesso motivo gli altri amici si erano rintanati in quella casa a porte sprangate. Invece sulla collina delle esecuzioni c’era maggiore possibilità di non incontrare anima viva, e così era stato.

Senza curarsi delle ginocchia che dolevano poggiate sul terreno aspro, mosse la mano e toccò la croce, ma osservandosi le dita vide che non avevano raccolto alcuna traccia di sangue: ormai asciutto, era diventato veramente soltanto tintura per quelle immonde assi. Quale falegname avrebbe mai voluto riutilizzarle? Quale sforzo d’animo già si richiede ad un mastro, un bravo mastro, per rendere liscia la loro superficie col pensiero che quella diventerà una tavola su cui presentare, imbandito al dileggio della gente, un povero peccatore? Non c’era un’altra vita dopo per quei tronchi destinati a diventare croci, ne era certa. Solo cenere.
Valeva lo stesso coloro che finivano su quel palco?
Un tempo avrebbe dato una risposta a quella domanda, ma non ora che non sapeva più a cosa credere.
In chi credere.
La toccò nuovamente; vi passò il palmo della mano su e giù, delicata come una carezza, e poi se lo scrutò. Nemmeno stavolta era apparsa alcuna macchia rossa. Persino il suo sangue era sparito: si vedeva, ma non c’era.
Lì davanti a sé, eppure eternamente fuori della propria portata, come davanti ad una qualunque tomba.

Il riso dei corvi al banchetto, e il tremolante rumore della carne smossa non la distraeva. Mise un pugno chiuso sul cuore ed appoggiò l’altro; e senza guardare un po’ più alto, nel punto dove l’aveva visto, ma fisso dinanzi a sé, cominciò a riflettere sul suo diritto di trovarsi lì, donna, quando neanche i suoi dodici… undici… i suoi favoriti, ancora dovevano smettere di tremare.
Non voleva essere una mancanza di rispetto nei loro confronti. Lei non si riteneva speciale tra tutta la gente che l’aveva amato e che da lui era stata amata.
O forse, alla luce di ciò, avrebbe dovuto?
Era dunque migliore anche di Simone? E di Giovanni, e tutti loro?
D’altro canto, il motivo che in un certo senso la rendeva superiore, era anche ciò che ne faceva una stolta.
No, lei non era meglio di nessuno, né con spregevole orgoglio avrebbe affermato di star soffrendo più di quelli: era stato lui stesso a ribadirle l’errore di cui, per un po’, era andata fiera.
L’errore che l’aveva resa la più felice delle donne al suo seguito.
L’errore che faceva sì fosse ora una delle donne più addolorate per la sua scomparsa.




...Continua nel prossimo capitolo


 
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