Nagisa Misumi è ormai un medico affermato in tutto il mondo, la sua vita passa veloce attraverso conferenze, urgenze e suo marito...
Conclusa: No
Fanfiction pubblicata il 24/07/2014 22:13:20
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QUANDO LA VITA NON è COME TI ASPETTI.
Nagisa Misumi era in poco tempo diventata un medico apprezzato dai colleghi e dai suoi pazienti che le si affidavano con la massima fiducia, sapendo che la professionalità che la spingeva durante le urgenze era dettata dal senso del lavoro che attraverso il tortuoso percorso di studio intrapreso l’aveva portato a divenire una persona matura, e sulla sua strada oltre che al lavoro e al grande successo riscosso, la giovane aveva conosciuto un uomo, lo aveva ammirato come persona, in lui aveva visto una protezione e a distanza di due mesi dalla conoscenza e poco più di due anni di fidanzamento, Nagisa lo aveva sposato.
La sua vita ormai era consumata dalle ore che passava all’ospedale per prendersi cura delle urgenze che arrivavano sempre più frequenti anche a distanza di minime frazioni di secondi, dalla casa che sembrava il luogo soffocante dove il marito faceva leva sulla sua coscienza per il fatto che non avessero ancora pensato ad allargare la famiglia, entrambi non si potevano ritenere “giovani” per il semplice fatto che avevano passato già la soglia dei trenta anni, ma Nagisa non si preoccupava più di tanto, rispondeva alle assillanti domande con semplici cenni con il capo e il marito aveva imparato a leggere i suoi gesti.
Il peso delle conseguenze su Nagisa era precipitato come una grossa incudine a schiacciarla sotto il pavimento una sera di un paio di anni prima, quando suo marito, al momento di spingersi dentro di lei, le aveva sussurrato di volere un bambino. Il suo viso era così docile da essere sembrato agli occhi ambra della moglie un gattino indifeso che voleva solamente il suo affetto più grande, il suo respiro caldo come qualcosa che esce da un forno le scivolò sulle guance e si disperse nelle lenzuola.
L’aveva tirato verso di sé, guidandogli la testa nell’incavo tra il collo e la spalla. Una volta, quando ancora non erano sposati, lui le aveva detto che quello era l’incavo perfetto, che la sua testa era fatta per starsene infilata lì, come un pezzo a completare un puzzle, e Nagisa si era sentita stupida.
Allora che ne pensi?, le aveva chiesto, con la voce ovattata dal cuscino, mentre con una mano le accarezzava scendendo sempre di più alla sua gamba destra, contratta contro la sua.
I rumori della notte avevano coperto la sua risposta, non amava rispondere, aveva solamente stretto più forte quel corpo caldo. Non le era uscito il fiato per rigettare la proposta.
L’aveva sentito nel buio della stanza richiudere il cassetto dei preservativi e aveva piegato di più il ginocchio destro, per fargli spazio. Con gli occhi spalancati per tutto il tempo, non aveva smesso di accarezzargli i capelli mori, ritmicamente.
Quel segreto custodito in tanti anni la seguiva strascicando ad ogni suo passo fin dai tempi del liceo, ma non aveva mai catturato la sua mente per più di qualche secondo, il tempo solamente per scrollarsi via di dosso quella sensazione di mancamento e irrequietezza. Nagisa l’aveva messo da parte per lei, per suo marito, per la loro famiglia, come pezzi di vetro impossibili da costruire ma che la loro profondità delle volte faceva male. Male da morire. Ora, tutt’a un tratto, se ne stava lì, come una voragine scavata nel soffitto nero della stanza, mostruoso e incontenibile. Nagisa avrebbe voluto dire a Kazuko fermati un momento, aspetta, c’è qualcosa che non ti ho detto, ma lui sicuramente era troppo preso da quel rituale che prendeva il nome di “sesso”, si muoveva con una fiducia disarmante e di certo non avrebbe capito.
L’aveva sentito venire dentro, per la prima volta, e aveva immaginato quel liquido colloso e pieno di promesse che andava a depositarsi sul suo corpo asciutto, dove sarebbe rimasto a seccare.
Non voleva un bambino, non capiva come certe persone desiderassero fortemente una gravidanza tanto da optare addirittura per uteri in affitto o altre diavolerie del genere, la risposta gliela aveva dato sua madre quando si lasciò uscire per sbaglio quella perplessità: Nagisa vedi alcune donne sentono il bisogno di essere madri, ma per essere madri bisogna trovare il ragazzo giusto e che sappia renderti felice, altrimenti il sesso riveste solamente una futile tradizione di marito e moglie, era questo che sua madre aveva provato a dirle ma a 17 anni Nagisa aveva solamente frainteso la faccenda rispondendo che lei questo istinto materno non lo avrebbe mai conosciuto, e dopo il tradimento subito da quel ragazzo, probabilmente sentiva ancora meno il bisogno di crescere un figlio per nove mesi, penare nel travaglio e darlo alla luce per dare soddisfazione a un uomo che non merita proprio nulla dalla vita.
Sposandosi con Kazuko aveva sempre rimandato la faccenda, non ci aveva mai veramente pensato.
La questione non si poneva e basta. Il suo ciclo mestruale riprendeva a scatti il suo normale deflusso sintomo dello stress e del poco appetito di quei giorni che la costringeva a digiunare per molte ore.
La verità era che Kazuko voleva un bambino e lei da brava moglie doveva darglielo, che importava se dopo sarebbe stata male con tutti i sintomi che la gravidanza portava con sé, che gli importava se dopo sarebbe diventata più grassa di una balena e solo per partire quel figlio che lui voleva, che importava se a distanza di nove mesi avrebbe sofferto i dolori dell’inferno. Doveva, perché quando facevano l’amore lui non le chiedeva di accendere la luce, non l’aveva mai fatta soffrire con i suoi movimenti, anche quando si erano avvicendati a farlo per la prima volta a casa sua.
Perché quando finiva si appoggiava su di lei e il peso del suo corpo annullava le sue paure, riduceva tutto al nulla assoluto e lui non parlava, ma respirava e basta ed era lì. Doveva, perché lui la amava, e l’amore di lui era sufficiente per entrambi, per mantenerli al riparo.
Dopo quella sera il sesso aveva preso una veste nuova, portava con sé una finalità precis, che presto li avrebbe condotti a tralasciare tutto quanto non fosse strettamente necessario.
Ma in settimane e poi in mesi non era successo niente. Kazuko era andato a farsi visitare e la conta dei suoi spermatozoi era risultata eccellente. La sera l’aveva detto a Nagisa tornata stanca dalla notte in ospedale, stando ben attento a farlo mentre la teneva stretta fra le sue braccia. Aveva subito aggiunto non devi preoccuparti, non è colpa tua. Lei si era divincolata ed era andata nell’altra stanza dicendo che era stanca e doveva riposare, ma in realtà ci andava per sfogarsi con le lacrime che aveva sempre trattenuto, e Kazuko si era detestato perché in realtà pensava, anzi sapeva, che la colpa era di sua moglie.
Nagisa aveva iniziato a sentirsi spiata anche tra le mura dell’ospedale. Teneva un conto fittizio dei giorni, segnava dei trattini sull’agenda di fianco al telefono. Comprava gli assorbenti e poi li gettava intatti. Nei giorni giusti respingeva il marito dicendogli sono stanca, abbi pazienza.
Lui teneva lo stesso conto, di nascosto. Il segreto di Nagisa strisciava tra di loro come una terza persona viscida e trasparente, allontanandoli sempre di più. Ogni volta che il marito a cena accennava a un dottore, a una cura oppure alla causa del problema, il volto di Nagisa si faceva scuro, si alzava, si dirigeva al lavabo e gli dava le spalle convinta che di lì a qualche ora avrebbe sicuramente cercato un pretesto per litigare, per una stupidaggine qualunque come il figlio che non arrivava.
La fatica li aveva vinti, entrambi. Avevano smesso di parlarne assiduamente, anche a cena, riducendosi a semplici sguardi, oppure a brevi cenni con il capo e, insieme ai discorsi, anche il sesso si era diradato, divenendo un rito tradizionale del venerdì sera quando Nagisa non aveva il turno notturno.
Tutti e due si lavavano a turno, prima e dopo averlo fatto. Kazuko tornava dal bagno, con la pelle del viso ancora lucida di sapone e la biancheria pulita addosso. Nel frattempo Nagisa si era già infilata la maglietta e gli chiedeva posso andare io? Quando rientrava in camera lo trovava già addormentato, o per lo meno con gli occhi chiusi, girato su un fianco e con tutto il corpo sbracciata dalla sua parte di letto.
Nagisa odiava quei periodi, e così si era immedesimata sempre di più ad accontentare il marito così ogni venerdì in cui non poteva cercare scuse, lo facevano: attimi di dolore, di passione si intrecciavano, bastava rispettare una sequenza sempre tradizionale di gesti, poi entrare piano, con velocità in modo da ridurre il dolore, aiutandosi anche un po’ con le dita, spingere con violenza, con più urgenza del solito, poi di colpo fermarsi, respirare forte e di nuovo riprendere, come la voglia di scappare di lì o penetrare più a fondo e con la velocità tale da farle meno male e più piacere.
Il venerdì era il giorno perfetto per farlo, e quel figlio arrivò con largo anticipo, anche se il peso che Nagisa si portava dentro era nulla in confronto a quello che presto avrebbe occupato quel fragile corpicino che si teneva a malapena in piedi sostenuto dalla spina dorsale..