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MANGA.IT FANFIC
Categoria: Originali (inventate)
Titolo Fanfic: ROSSO CARMINIO
Genere: Sentimentale, Drammatico, Fantasy
Rating: Vietato Minori 18 anni
Autore: anfimissi galleria  scrivi - profilo
Pubblicata: 19/11/2007 11:55:56 (ultimo inserimento: 03/04/08)

Era il sangue più dolce - e più pericoloso - quello che scorreva nelle vene di Elanor Calhoun. Adam Sinclair lo sapeva bene. Dopotutto, era un vampiro
 
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PROLOGO
- Capitolo 1° -

ROSSO CARMINIO

Era il sangue. Tutto ruotava attorno a quel nettare, rosso e proibito. Quello vivo, che scorreva nelle vene di Eleanor Calhoun, come in migliaia di altri sconosciuti. Ma il suo, era indubbiamente il più dolce, il più pericoloso. Lo sapeva bene. Lui lo aveva assaggiato, ed era stata la sua rovina, la causa di una sete che non si sarebbe mai placata. Perché, dopotutto, Adam Sinclair era soltanto un vampiro.







Dedicata a Claudia.












PROLOGO


Onde dai profili rossastri s’infrangevano violentemente contro la battigia.
Diciannove novembre 1888.
Una notte nera. E l’acqua del mare, gelida e mossa.
Un’onda più alta delle altre avviluppò il pontile, trovando la morte sulla spiaggia come le sue sorelle prima di lei.
Odore d’acqua, di legno marcio e di viti arrugginite.
Un’asse mancante, tre in procinto di cedere.
Contarle era il passatempo preferito di William Tremaine, il guardiano del faro.
Duecentosette scalini pericolanti, per passare le notti ad osservare il nulla nel mare, qualche ubriaco col volto riverso sulla sabbia, le tasche svuotate da un paio di signore dal volto imbellettato.
Nelle ore più fredde e silenziose non rimaneva che il buio, tutt’intorno.
E lui, seduto su una sedia sgangherata, una vecchia cerata sulle spalle, teso a percepire il calore di quell’unica torcia che bruciava incessantemente al centro dell’ampia stanza vetrata. Disposte secondo le indicazioni fornite dal famoso Augustin Fresnel, una serie di lenti concentriche sembravano centuplicare l’intensità della luce, facendo del vecchio faro un punto di riferimento visibile a oltre dieci miglia di distanza.
Non era poi male, come lavoro, una volta abituatisi alla solitudine e all’odore dell’olio bruciato.
Era un uomo di poche parole, il vecchio Will. A casa non aveva moglie o figli, ad aspettarlo. Questo faceva di lui il guardiano perfetto.
Una vita dedicata al mare, e all’isola su cui era nato.
Sempre lì, tutte le notti.
Una dopo l’altra, senza sconti per Natale o Capodanno.
Venticinque metri di faro, arroccato sugli scogli. Tutto il suo mondo.
Ci arrivava all’imbrunire, sulla sua barchetta lunga poco più di due metri e piena di falle chiuse alla bell’è meglio.
C’erano giorni in cui le faceva a nuoto, quelle poche decine di metri che separavano l’alta torre dal resto dell’isola.
Ma novembre non era il mese più indicato per farsi un bagno. L’acqua era fredda e ghiacciava le ossa, strozzando l’aria nei polmoni dopo poche bracciate.
Le notti sembravano eterne, lassù.
Ogni tanto fumava la pipa, mentre con la mente si perdeva nei ricordi, per ingannare il tempo.
Ma il più delle volte si guardava attorno, l’unico vero modo per riuscire a restare sveglio.
Osservava le increspature del mare, mai identiche.
La luna, quando c’era. O quando non era avvolta dalle nubi.
E quel pontile dalle assi fatiscenti che contava ogni giorno una superstite in meno.
Un panorama che sapeva di già visto.
Ma che quella sera, si tingeva di rosso.
William Tremaine, per la prima volta in vita sua, aveva abbandonato la sua postazione prima del sorgere del sole.
La fiamma continuava a bruciare, incustodita.
Unica e disperata speranza di salvezza per un naufrago che quella sera non avrebbe ricevuto nessun aiuto.
Perché, sull’isola, si era scatenato l’inferno.





“Presto, con quei secchi!”
La voce di Samuel Blair risuonava rauca e stentata, mentre il fumo gli riempiva la gola.
Fumo nero come l’ombra della morte.
Erano tutti lì.
Tutti increduli, col cuore che scoppiava loro nel petto.
La Villa dei Sinclair stava bruciando da cima a fondo.
L’immagine di un’epoca che finiva, di una realtà che sapeva già di passato.
Un torcia incandescente, lingue di fuoco che divoravano ogni cosa.
Partite dal pianterreno, le fiamme avevano ormai raggiunto il tetto.
Ogni tanto una trave cedeva, precipitando con un tonfo assordante, subito coperto dalle urla di alcune donne che assistevano impotenti a quella scena.
Madri che coprivano gli occhi dei loro bambini, pregando perché la folgore di quella notte senza luna non si annidasse a vita nei loro ricordi.
“Signore, fa che abbiano avuto il tempo di uscire”
Un mormorio ripetuto, un pensiero che sfrecciava incessantemente nella mente degli uomini disposti a formare una catena, secchi d’acqua che passavano di mano in mano.
Sempre in prima fila, Samuel, il sindaco dell’isola, continuava ad incitare i compagni, rovesciando secchi traboccanti d’acqua sulle fiamme indomite.
Al crepitio del legno arso si aggiungeva il rumore dell’acqua ustionata dal fuoco, vapore che si anneriva ancor prima di perdersi nell’aria.
Emmett Preston teneva la testa bassa, mani callose le cui dita si stringevano spasmodicamente attorno al manico arrugginito, passando al vicino un secchio dopo l’altro.
Avevano tutti paura che fosse ormai troppo tardi, che quel disperato tentativo si rivelasse vano.
Un timore che nel suo cuore si vestiva di certezza.
Lui era stato il primo ad arrivare. E l’unico a sentire.
L’eco di quelle urla gli rimbombava ancora nelle orecchie.
Non c’era niente di umano nelle grida straziate che si erano levate dall’edificio in fiamme.
La morte era entrata in quella casa, impietosa accompagnatrice di una rovina ancora più grande.
Era difficile da spiegare a parole.
Una percezione. L’impalpabile presentimento di un’oscurità troppo grande per la mente umana.
Per la mente, o forse per l’anima.
E quelle voci…distorte e snaturate, un addio alla vita più terrificante che tragico.
Emmett sollevò appena la testa, incrociando lo sguardo di Georgiana Preston, da un anno a quella parte meglio nota come la moglie di Zebulon Calhoun.
Piangeva, sua sorella.
Lacrime silenziose solcavano il pallore candido delle sue guance, gli occhi illuminati dai bagliori di quell’orrore.
Teneva tra le braccia il primogenito, Jeremy. Un fagottino avvolto in una coperta di lana chiara, un poco infeltrita.
E intanto, la casa bruciava.
Un rogo sinistro, fiamme rosse e voraci come quelle dell’inferno.
Incapace di reggere ulteriormente quello sguardo disperato, Emmett abbassò gli occhi.
Le palpebre chiuse, quasi serrate a forza.
Un secchio, poi un altro. E un altro ancora.
Suo nipote piangeva, strillava a pieni polmoni.
Vagiti stemperati nell’aria di una notte troppo fredda.
Lo splendore della vita nella protesta di una creatura che forse nemmeno sapeva di essere al mondo.
Le grida dei Sinclair, invece…
Mostruose?
Non era bravo con le parole, con gli aggettivi anche meno. Ma se quel termine non era la definizione esatta, allora si discostava veramente di poco.
Passò un’ora. Quindi un’altra.
Ed erano ancora tutti lì, donne e bambini compresi.
C’era Lawrence Foster che iniziava a mancare la presa sui secchi, le dita intorpidite e arrossate mentre la voce del reverendo Mathison si era ormai ridotta a un sussurro, le preghiere accompagnate da colpi di tosse e interrotte dal tipico ticchettio di chi batteva i denti per il freddo.
Era originario del Texas, quel prete da quarantacinque chili scarsi.
E poco importava che fosse sull’isola da più di dieci anni. Non si sarebbe mai adattato al clima rigido delle coste del Maine.
Bisognava nascerci, in quell’angolo sperduto. E magari morirci, sostenevano molti.
Non c’era bisogno di andare troppo lontano, solo un paio di metri più in là Caleb Withmore sembrava non avvertire minimamente il freddo pungente che penetrava nelle ossa. Neil Carver, addirittura, era in maniche di camicia.
Tutti col cuore a pezzi e l’animo febbricitante, tutti pedine in quell’inutile e disperata lotta contro il tempo.
Anche Ben Cochran e Tommy Malone, nemici da una vita, lavoravano fianco a fianco senza sosta.
C’erano tutti, pensò nuovamente Emmett.
Tutti tranne Zeb.
E in fondo era meglio così.
Suo cognato era tornato dalla guerra con una medaglia al valore appuntata sulla divisa e un bastone tra le dita che l’avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni.
Starsene lì in piedi, con la gamba che lo faceva dannare e senza poter essere di alcun aiuto, lo avrebbe fatto stare solo peggio.
Continuarono così fino alle tre del mattino.
Poi, accadde.
La prima folata s’insinuò come uno scaltro fendente, carezzando appena le ampie gonne delle donne presenti, asciugando la fronte madida di sudore di Emmett e dei suoi compagni.
Bastarono dieci minuti.
Dieci minuti e le ultime tracce di speranza vennero spazzate via dal vento.
Invisibile, violento. Crudele.
Schiaffi d’aria su volti già straziati dal dolore, guance livide e senza alcuna impronta.
Ossigeno puro, ad alimentare le fiamme.
Sempre più alte, sempre più fameliche.
Era tutto inutile, ormai.
Tutto finito.





Le prime luci del mattino si levarono in un cielo grigio straziato da nuvole cariche di pioggia.
Un’alba funerea, pervasa da un silenzio che diceva troppo.
Solo cenere, in cima alla collina.
Un paio di travi carbonizzate e frammenti di vetro plasmati dalle fiamme in forme gobbose e opacizzate.
Nessun respiro, nessuna lacrima a bagnare quella terra che ancora sapeva di fumo.
Di morte.
Secchi abbandonati qua e là, un fazzoletto dai bordi ingialliti annodato a un ramo basso oscillava lento nel suo macabro saluto.
Erano andati via, perché non c’era più nulla da vedere.
O forse, perché non sarebbero riusciti a guardare oltre.
Il destino aveva riso loro in faccia a un’ultima volta, quando le fiamme si erano ridotte a striature di fumo bigio che salivano lente, intossicando l’aria.
Anche la misera speranza di poter dare una degna sepoltura ai corpi di quei poveri diavoli era stata stroncata.
Il fuoco si era portato via tutto, persino le loro ossa.
Quel cumulo di cenere sarebbe stata la loro tomba.
Per un’ora, forse un giorno. Finché il vento non l’avesse trascinata via, disperdendola tra le anonime onde del mare.
Atto doloso, superficiale distrazione, semplice e drammatico incidente.
Le ipotesi furono molte. Troppe, per stabilirne una.
Ma il risultato era sempre lo stesso.
Nessun Sinclair era sopravvissuto. Nessuno.
Ci furono pettegolezzi, ci furono accuse velate.
Ma sempre sottovoce, e con lo sguardo vigile quanto timoroso.
Come se qualcuno, nell’oscurità della notte o sotto il chiarore del sole, potesse sentire e tramare vendetta.
Un luogo senza pace.
Così fu etichettata la grande tenuta su cui un tempo sorgeva l’imponente villa.
Non restava che un cumulo di macerie. E la dependance, la vecchia casetta del custode, qualche centinaio di metri più in là. Abbandonata, come lo era ormai da anni.
Fu così che tutte le dicerie, tutti i pensieri strani si trasformarono lentamente in leggenda.
Generazione dopo generazione.
Racconti sussurrati nelle buie e fredde sere d’inverno, al solo scopo di terrorizzare gli amici creduloni.
Storie che parlavano di anime logore, prigioniere di una vita dannata.








Spazio Autrice:
Un paio di precisazioni, senza dilungarmi troppo.
Come penso avrete ormai capito, si tratta di una fic originale, prima parte di quella che spero sarà una trilogia. A “Rosso Carminio” seguiranno infatti “Rosso Vermiglio” e infine “Rosso Scarlatto”, ognuna costituita da un numero ancora imprecisato di capitoli.
Ho deciso non a caso di pubblicare oggi, un piccolo omaggio a una persona per me davvero molto importante. Il mio ghiro, la mia sorella di sangue.
A Claheaven, per il suo diciannovesimo compleanno.
Con la speranza di traviare presto le tue preferenze cromatiche.

 
Continua nel capitolo:


 
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