da una serie originale:
"PERCHé NON DISTURBARE UN PICNIC"
una fanfiction di:

Generi:
Drammatico - Horror - Azione - Avventura - Soprannaturale
Avviso:
One Shot
Rating:
Per Tutte le età

Anteprima:
Storia horror presa da un incubo. L'amore dei bambini verso i genitori è incondizionato, quello dei genitori verso il figlio non è scontato.

Conclusa: Sì

Fanfiction pubblicata il 06/08/2022 21:14:07
 
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Si potrebbe pensare che un picnic sia un evento normale in tutte le famiglie. Non è che lo si pensa e basta, è scontato. Quale bambino non è stato portato dai genitori a fare una scampagnata per poi provare l’ebbrezza di mangiare su un telo steso su un prato? Quale bambino non si è sentito parte di una gigantesca casa per bambole viva usando posate, bicchieri e piatti di plastica ammirando la mamma tirare fuori il pranzo da un cestino di vimini? Quale papà non si è illuminato di gioia vedendo il proprio figlio sgranare gli occhi per ognuno di quei gesti per cui lui non si meraviglia più da una vita?

Eppure è esistito qualcuno per cui tutto questo non è stato né normale e né scontato: me.

Che ci crediate o no, io il mio primo picnic l’ho avuto solo all'età di otto anni e di certo non potevo sapere che sarebbe stato anche l’ultimo. I motivi per cui ci è voluto così tanto a convincere i miei a farmi provare questa esperienza sono stati molteplici. Devo comunque ammettere che il bersaglio di questa colossale opera di convincimento è dovuta essere principalmente mia madre. È stata sempre lei, infatti, quella che ha trovato sempre terribilmente pesante qualunque attività che uscisse dalla routine quotidiana che lei si è creata da quando è nata. Per mia madre è sempre stata pressappoco una tragedia andare a cena fuori o al cinema, quello infatti era l’orario in cui doveva occuparsi di distribuire il pasto al cane e ai polli. Addirittura una sera, in questo fatidico orario, mi fece aspettare circa un’ora lasciandomi in preda a una dolorosissima otite prima di concedermi qualche goccia di Novalgina. Un giorno mio padre si azzardò a prendere timidamente le mie difese facendo notare a mia madre come amasse più gli animali da cortile di sua figlia. Lei lo aggredì verbalmente sul momento per poi arrivare a rinfacciargli quelle parole per il resto degli anni avvenire. Un sacco di volte mi sono fermata a fantasticare, a quell’età, cercando di immaginare che uomo sarebbe stato mio padre in compagnia di un’altra donna, probabilmente molto diverso e migliore. Non sarei stata la stessa io. Una metà di me sarebbe stata con mio padre e questa ipotetica altra donna. L’altra mezza me dovunque fosse mia madre con un ipotetico altro uomo.

Non ho saputo il significato della parola <i>aperitivo</i> fino a quando, a vent’anni, non ho avuto il mio primo ragazzo. Di andare a pranzo fuori non se ne parlava perché si rischiava di spendere troppo, per lo stesso motivo sono sempre state rare le visite a parchi divertimenti o la partecipazione a feste o eventi. Figuriamoci se un viaggio o una vacanza di qualche giorno erano contemplati, c’era da badare agli animali e alle piante dell’orto, e poi cosa te ne fai di vedere un posto nuovo se il mare lo hai a cinque muniti di macchina? E così, per vent’anni, sulla stessa striscia di sabbia e a percorrere le stesse strade. Gli stessi negozi, la stessa gente, lo stesso cibo sulla tavola. Perché assaggiare quello che sicuramente è una schifezza? La sera a letto entro mezzanotte perché la mattina bisognava alzarsi presto per permettere a tutta quella preziosissima routine di continuare senza intoppi. Mai che fosse stato rinnovato qualche mobile o oggetto di arredamento all’interno della casa.

<i>Perché stravolgere le abitudini?</i>

A qualche evento, tuttavia, mia madre era stata costretta a prenderci parte, come il matrimonio di una sua cugina di primo grado. Io all’epoca avevo quattro anni e nella mia memoria, invece di essere rimasto impresso il lieto evento di festa, ci sono rimaste le parole di mia madre.

<i>“Per me tutto questo è uno stress”

“Mangiando troppo mi sento male.”

“Poi siamo costretti a farle il regalo.”

“Io sto bene da sola a casa mia senza nessuno che disturba.”

“Non me la sento di prepararmi, truccarmi, e andare dal parrucchiere.”
</i>
Pronunciò tutte queste parole con una faccia così stanca e gli occhi talmente arrossati che finii per crederle. Perché tutti definivano il matrimonio il giorno più bello della vita se la realtà era quella?

Effettivamente non l’avevo mai vista truccarsi, pettinarsi o scegliere con cura i vestiti, era davvero così terribile crescere? Eppure tutte le mie amiche non vedevano l’ora di diventare grandi per poter fare proprio quelle cose.

Il giorno in cui mia madre capitolò sul portarmi al picnic ero talmente incredula da essere iper eccitata. Mi sembrava che i bicchieri di plastica spessa e trasparente avessero un profumo delizioso e per questo non vedevo l’ora di usarli. Avevo l’impressione che l’olio e l’aceto, messo in quelle piccole bottigliette preparate da portare via con i tappi azzurri, avessero preso un sapore molto migliore. E così il sale.

“Comunque non sarebbe necessario dal momento che noi in campagna ci stiamo già.”

L’ennesima frase messa lì da mia madre di proposito per smontare la gioia degli altri, quel giorno non riuscì a scalfirmi.

Non mi smontò nemmeno la per niente ponderata scelta del posto. Il picnic era stata una mera cosa organizzata e fine a se stessa, si intuiva che era stato pensato tutto contro voglia. Se io fossi stata figlia di altri genitori il pranzo sarebbe stato preceduto da qualche altra attività divertente o didattica. Una passeggiata. Osservare degli animali mai visti. Visitare un paese.

Niente di tutto questo avvenne mai, i miei si fermarono semplicemente in questa pineta in cui non ero mai stata, fecero pochi passi fuori dalla macchina e stesero in terra il telo per mangiare, ai piedi di un pino molto più grande degli altri.

Nonostante mi fossi già seduta in terra mi veniva da saltellare, lo spesso strato di aghi di pino mi pungeva le gambe trapassando sia il telo sia i sottili pantaloni che indossavo nel clima mite di inizio ottobre.

Mi guardavo intorno felice mentre i miei preparavano. Il bosco era abbastanza selvaggio e sembrava essere poco frequentato. I fitti arbusti ostruivano il passaggio a piedi praticamente dovunque, i pini erano abbandonati a loro stessi con i rami spezzati dal vento che continuavano a pendere in bilico dai tronchi. Quelli finiti in terra non erano stati mai rimossi restando lì a marcire corrosi da vermi e insetti. Le pigne ormai esauste degli anni passati, erano ovunque sul terreno e appese ai rami. Grovigli di spine minacciavano i vestiti ad ogni movimento. Comunque io restavo fiduciosa, forse mi avevano portata lì per farmi capire come è fatto un posto in cui la natura non è stata alterata per niente dall’uomo.

Mia madre, dopo aver condito l’insalata, iniziò a rigirarla nella ciotola. Trovano che fosse gradevole persino il suono che producevano quelle spesse posate di plastica. Tutto aveva un odore e un sapore delizioso nonostante gli ingredienti fossero quelli che usavamo tutti i giorni a casa da anni.

Pur non andando matta, all’epoca, per la verdura come tutti i bambini, quell’insalata mi sembrò la più buona che avessi assaggiato in vita mia. Una giornata bellissima, non capivo perché non potevamo farlo più spesso.

Ad un certo punto ci accorgemmo di una presenza che, molto probabilmente, era stata attratta dal profumo del cibo. I miei si voltarono a guardarla all’unisono, arrestando all'istante la masticazione di quanto avevano in bocca. Rimasero seri mentre a me venne da sorridere. Era un orso abbastanza piccolo, forse si trattava di un cucciolo un po’ cresciuto. Stava in piedi appoggiato al tronco del grosso pino sotto cui stavamo seduti. Ci guardava, gli occhi erano molto particolari: il taglio molto simile a una persona ma con l’iride giallo ocra molto brillante. Lo sguardo sgranato e curioso, le pupille tonde. Il mantello marroncino molto chiaro.

Mi voltai a guardare i miei. Mio padre era pietrificato, mia madre molto infastidita. Il sorriso morì sulla mia bocca, a giudicare dalle loro espressioni la situazione era allarmante. Questo accadeva più o meno da quando ero nata, per decidere cosa dovessi provare o fare cercavo prima la conferma sul viso dei miei; se per caso questo non corrispondeva a come mi sentivo io, cambiavo immediatamente rotta sentendomi anche tremendamente in colpa per averla pensata diversamente.

Evidentemente quel peluche troppo cresciuto rappresentava un problema, addirittura un pericolo. Il timore iniziò a farsi strada dentro di me. Cercai conferma sul viso di mio padre trovandolo ancora impietrito. Mi rivolsi a cercare la risposta sulla faccia di mia madre vedendola scattare in piedi arrabbiatissima con una forchetta in mano.

La scena che vedemmo subito dopo ebbe il potere di lasciare ancora più interdetti sia me che mio padre. Mia madre trafisse con la forchetta la carne dell’orso staccandone un grosso pezzo che divorò subito dopo.

Ora non dovevo più preoccuparmi dell’eventuale incongruenza tra il mio atteggiamento e sentimenti e quelli dei miei, mio padre mi stava dando manforte pressoché in tutto. Io e lui due statue di cera, la capacità di linguaggio e di movimento sembravano essere state completamente cancellate dai nostri cervelli.

Mia madre continuava a trafiggere l’orso con la forchetta, staccare pezzi di carne e divorarli, così, di continuo, fino a che non ne rimase solo lo scheletro completamente pulito.

A quel punto, soddisfatta per essersi tolta la scocciatura, tornò da noi.

Io, però, non riuscivo a staccare lo sguardo da ciò che era rimasto dell’orso. Lo scheletro era rimasto in piedi appoggiato al tronco. Gli occhi giallo ocra, con il taglio uguale a quello di una persona, erano sempre lì e si muovevano. Guardavano me.

<i>Perché?</i>

Una domanda nelle pupille sconcertate. Ora cercavano quella risposta con sincera curiosità.

Se c’è una cosa che ho dovuto imparare presto nella vita è che i sentimenti non sono a comando. Se durante una giornata che era iniziata in modo positivo, accade qualcosa di sconvolgente, è impossibile ignorare quell’evento per tornare a dove eravamo prima come se niente fosse successo. Non esiste mai il tasto <i>rewind</i>, purtroppo, anche se un sacco di volte lo avrei desiderato. E così l’andamento della giornata subisce per forza una deviazione inevitabile da cui è inutile sforzarsi di uscire.

In quel momento il tasto <i>rewind</i> lo avrebbe voluto mia madre, tuttavia non le fu possibile ricominciare da dove eravamo rimasti trovandosi davanti due stoccafissi muti e immobili. L’unica cosa che le rimase da fare, probabilmente sollevata per avere la possibilità di tornare alla sua preziosa routine casalinga, fu quella di iniziare a raccogliere tutti i nostri oggetti per caricarli di nuovo in macchina e andare via. Quello fu il segnale per far smuovere anche me e mio padre.

<i>Perché?</i>

La curiosità di quella domanda iniziò ad essere sopraffatta dalla disperazione. Due pupille giallo ocra continuavano a muoversi seguendo ogni mia azione. Me le sentivo appiccicate addosso nonostante voltassi loro le spalle. Non riscrivo ad escluderle, era come se le vedessi direttamente con l'anima.

Nel momento in cui tutto fu caricato in macchina e noi stavamo per partire, le pupille giallo ocra mutarono improvvisamente la loro forma da tonda a una specie di losanga romboide. Non potevano più piangere perché ormai private dei muscoli e degli organi che consentono questo, ma io riuscii a vedere lo stesso quelle lacrime con gli occhi dell’anima.

<i>Perché?</i>

Mentre la macchina iniziava a muoversi per tornare verso casa, ebbi l’impressione di sentire quella domanda pronunciata tra i singhiozzi. Le pupille giallo ocra a forma di losanga romboide mi seguirono finché la mia immagine non fu scomparsa lungo la strada. Forse avrei dovuto comprendere di più mia madre quando definiva le interruzioni alla routine estremamente stressanti. Sentirmi in colpa per decisioni sbagliate e affrettate è sempre stato il mio destino.




FINE
 
 
 
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