Ero così stufa di avere la loro compassione che decisi di agire, di credere in me stessa...per lui! (Naru/Hina)
Conclusa: Sì
Fanfiction pubblicata il 19/07/2007 16:43:35
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Delusione.
Ogni volta che qualcuno della mia famiglia mi guardava in faccia, vedevo riflesso nei loro occhi questo fastidioso sentimento. Fastidioso, perché mi faceva sentire come se il motivo per cui ero venuta al mondo fosse stato dimenticato da tutti: mi sentivo come se nessuno mi volesse accanto, come se mi trovavano seccante, petulante, quanto una palla al piede. Ero carina, ero tenera, ma non ero degna di essere nel posto in cui mi trovavo. E tutti non facevano che ricordarmelo. Non c’era bisogno di usare le parole, io riuscivo a leggere nei loro sguardi.
Delusione.
Non ero come mi volevano, come forse avrei dovuto essere. Essendo la discendente del clan più forte di Konoha, dovevo avere delle qualità innate, e non parlo della capacità del byakugan, affatto.
Quell’abilità faceva parte del pacchetto, quando sono nata.
Parlo di determinazione, di forza, di coraggio.
Non avevo niente di tutto questo.
Non ero abbastanza forte, da bambina, quando mi allenavo con mio padre. Stavamo ore ed ore chiusi nella palestra, ad allenarci, a torturarci. Anche se, a pensarci bene, l’unica che ne usciva veramente mal ridotta ero io. Perché non riuscendo negli esercizi e nei movimenti che avrei dovuto conoscere meglio del reticolato del mio chakra, facevo imbestialire mio padre, che mi dava addosso con più veemenza, sperando in una mia reazione.
Ma io avevo paura del suo potere, ed avevo così paura di non essere quello che lui si aspettava, che finivo per essere solo un peso, e una delusione. Ogni sera, quando le ore dedicate al mio addestramento si concludevano, vedevo la rassegnazione in quegli occhi così simili ai miei, e ne ero distrutta, totalmente. Così non reagivo mai come mio padre realmente desiderava: non tiravo fuori il carattere degli Hyuga, né facevo appello ad una forza nascosta. Reagivo abbattendomi, dicendomi continuamente che sarebbe stato meglio, forse, non venire al mondo, sparire, andarmene, dare il mio posto a mio cugino Neji, che era decisamente più promettente di me.
E intanto tutti intorno non facevano che ripetere quel fastidioso epiteto.
<i>Povera Hinata…</i>
Povera…Oltre alla delusione ero sempre costretta a subire la compassione e la pietà che vedevo negli occhi di coloro che non volevano trasformarmi in un vero ninja, o che avevano smesso di crederci: mia madre per prima.
Ogni sera, a cena, i suoi occhi attenti sfioravano il mio profilo e vedevo il suo dolore, appena carpiva il mio. E così iniziavano lunghe discussioni con mio padre. Mi sembra ancora di sentirli urlare, di sentirli rinfacciarsi tutto. Finchè un giorno, a tavola, quando ero così debole da non riuscire a tenere in mano le bacchette, mia madre battè i pugni sul tavolo, attirando l’attenzione di tutti i commensali e lo sguardo interrogativo di mio padre. Fino a quel momento, i miei genitori erano stati troppo pudichi o troppo vecchia maniera per litigare in pubblico invece che nell’intimità della stanza che dividevano. Per questo fu una sorpresa per me quanto per mio padre. In più mia madre era al sesto mese di gravidanza, quindi nessuno si aspettava un così alto tasso di nervosismo, che avrebbe potuto far male alla creatura che portava nel grembo. Ma niente di tutto questo la fermò
«Hiashi!» «E’ solo una bambina, e la stai letteralmente torturando, non lo vedi?»
«Sei la solita esagerata» rispose mio padre, senza scomporsi. In effetti credi di non aver mai visto mio padre scomposto o spaventato. Ai miei occhi era una lastra di marmo che nessuno poteva spezzare, o anche solo scalfire. Era il modello da emulare ma che, all’epoca, pensavo di non poter raggiungere. Vedete, fin da quando ero così piccola da non saper neanche usare la prima persona narrativa per rivolgersi alla mia stessa esistenza, ho sempre sentito la pressione che il mio rango e la mia nascita avevano sulla mia vita, e sapevo, non chiedetemi come, non sarei riuscita a rispondere positivamente alle aspettative di mio padre, e questo mi feriva.
«Hinata è mia figlia» continuò mio padre, incrociando le dita sulla tavola ancora perfettamente imbandita. La sua voce, la ricordo ancora perfettamente, era calma e pacata, come se si fosse da sempre preparato a quel tipo di conversazione. O probabilmente per lui il senso del pudore veniva prima di ogni cosa, prima ancora di me. «E’ la discendente della nobile casata Hyuga. Per questo deve diventare forte, deve diventare degna del nome che porta. Non pensare che io mi diverta durante gli allenamenti Sachiko, però è il mio dovere di padre.»
«Ma perché insisti tanto? Perché continui a ferirla quando ormai è palese che non potrà mai diventare come la vuoi tu?»
Sento ancora quella frase che mi squarcia il cuore. Avevo sempre pensato che mia madre fosse la mia complice, la mia salvezza. Se tutto andava male con mio padre, avevo sempre la rassicurazione che c’era l’affetto di mia madre a tenermi in piedi. Era come se, soffrendo per il rapporto che avevo con il nobile Hiashi Hyuga, avevo mitizzato la figura di sua moglie Sachiko, creando una figura che, me ne accorsi quel giorno, in definitiva non esisteva. Mia madre non credeva in me: non dubitavo del suo affetto, ma mi resi conto che non aveva fiducia in me, e che non l’avrebbe mai avuta. Fu quello il momento in cui cominciai a ripensare all’atteggiamento di mio padre. Lui mi feriva, mi umiliava, mi tormentava, mi rimproverava…ma continuava sempre a credere che un giorno sarei sbocciata. Aveva così fiducia nelle mie possibilità, o comunque nel potere che, per discendenza, doveva scorrere nelle mie vene, che continuava, giorno dopo giorno, in un addestramento che, cominciavo a capirlo, sfiancava anche lui. Cominciai a capire che stava agendo per il mio bene o, per dirla tutto, per quello che lui credeva fosse il mio bene.
Io non mi sentivo un ninja, e all’inizio non pensavo neanche che lo sarei mai diventata. Però per mio padre era importante, e per me era il prezzo da pagare per renderlo felice, per dargli prova che aveva fatto bene a non mollare la spugna.
Credo che quella fosse la prima volta che una fiamma di determinazione e autostima mi pervase l’anima. Ma come ogni primo barlume non durò molto. Nei primi giorni dopo quella conversazione, mi impegnai con le unghie e con i denti. Mi rialzavo, stanca ma determinata e sono sicura che per un po’ anche papà notò che stavo facendo del mio meglio, che mi ero davvero messa in testa di allenarmi. Ma quando i miglioramenti non fecero capolino, fui riassalita dalla disperazione, e notai di nuovo quello sguardo.
<i> Hinata, perché mi deludi sempre? </i>
Gli occhi di mio padre si velarono ben presto di delusione, ed io sapevo che, arrivata a quel punto, non potevo fare di più. Se impegnandomi con tutta me stessa non riuscivo a cambiare la situazione che cosa avrei potuto fare?
La risposta a questa domanda mi giunse molti anni dopo, quando nel riflesso di due occhi azzurri e di un’anima che sembrava tanto simile alla mia, capii che cosa significava impegnarsi davvero, e mi resi conto che quello che io avevo fatto con mio padre era solo una misera e pallida imitazione di quello che si poteva definire veramente impegno. Ma a cinque anni io ancora non lo conoscevo, a cinque anni ancora non sapevo che potevano esserci delle persone che combattevano quanto me.
A cinque anni io ero sola dentro una grande casa piena di risentimento e di delusione, dove la cosa migliore che mi si dicesse fosse « Oh, povera Hinata».
Perciò quando rividi quello sguardo di mio padre mi sentii completamente abbattuta e sconfitta.
E la vita venne a rincarare la dose.
A cinque anni divenni orfana di madre; morì dando alla luce mia sorella minore, Hanabi.
La primavera era entrata da pochi giorni a Konoha, e i ciliegi non erano mai stati così belli: sapevo che mia madre li avrebbe apprezzati tantissimo. In quel periodo cominciai a creare piccole composizioni di fiori essiccati, proprio come mi aveva insegnato lei. Suppongo che quello fosse un modo come un altro per trattenere il suo ricordo con me, per non lasciarla sparire. Ricordare quello che lei mi aveva insegnato era tutto quello che potevo fare per onorare la sua memoria. A volte sentivo lo sguardo del grande e potente Hiashi su di me, quando me ne stavo per conto mio ad intrecciare fiori, e sapevo che in quei pochi istanti era orgoglioso e fiero di me. Poi spariva e potevano passare giorni prima che riuscissi ad intravederlo di nuovo.
Per un po’ fu inconsolabile.
Non avevo mai immaginato che potesse amarla così tanto: ma io ero solo una bambina e forse certe defaillance andavano di pari passo con l’età, non so. E invece guardandolo nei mesi successivi alla scomparsa della sua Sachiko, mi resi conto che io non sapevo un bel niente. Sembrava invecchiato, distrutto interiormente, come se dentro di sé non avesse più un minimo di alito di vita per poter continuare a trascinare in quei giorni che, lo sapevo, sarebbero stati vuoti senza sua moglie.
All’inizio non riusciva neanche a guardare Hanabi.
La servitù, in casa, non faceva che portarla da lui, per fargli vedere com’era bella, come assomigliava alla padrona, come crescesse bene, e come avesse bisogno di lui. Ma mio padre guardava mia sorella per un istante, e in quell’istante sembrava davvero fiero della piccola creatura che aveva davanti, ma poi i suoi occhi diventavano vitrei ed io sospettavo che non potessero vedere niente, che non volessero vedere niente.
Poi, per non so quale ragione, una mattina avvenne il miracolo.
Trovammo mio padre nella stanza della piccola Hanabi, a cullarla. Tutti capimmo che cominciava a riprendersi, e che, con un po’ di fortuna, avrebbe ripreso la vita di sempre. E così fu.
Era più magro di come lo ricordassi, ma nell’arco di sei mesi avevamo ricominciato ad allenarci quotidianamente. Io non ero cambiata e non lo era neanche lui.
Ci trovammo di nuovo alla deriva, senza sapere più che pesci prendere.
Ci vollero quasi cinque anni perché avvenisse una svolta nella nostra esistenza. A cinque anni Hanabi era molto più forte e abile di quanto lo fossi io alla sua età, e per questo, immagino, mio padre cominciò a soppesare l’idea che fosse mia sorella e non io a prendere un giorno in mano le redini della famiglia. Non mi creava nessun problema: sapevo di non esserne in grado, però mi feriva lo stesso quella rassegnazione che vedevo nello sguardo di mio padre. Avevo pensato di poterla cancellare, ma non fu così.
Fu allora che entrò in scena Kurenai: non era mia madre, ma ora è come se lo fosse. Arrivò e mi salvò. In realtà, sebbene la mia più grande gratitudine vada ad un’altra persona, credo che niente nella mia vita avrebbe avuto inizio se quel giorno non fosse venuta Kurenai a prendermi da quell’enorme casa per portarmi in Accademia. Niente sarebbe mai accaduto se non fosse stata lei ad avere così tanta pazienza da sopportare i miei insuccessi con lo stesso sorriso con cui festeggiava le mie piccole vittorie. Forse è vero che gran parte di quello che ho ora lo devo a lei.
Perché in una mattina di primavera lei mi portò via dalla mia casa, e fu allora che “la povera Hinata” cominciò a defilarsi dietro la ragazza che sono oggi.
Grazie a Kurenai, certo.
Ma soprattutto grazie a lui…