"Ed ora sono qui per chiedervi se volte varcare, insieme a me, il cancello di Hirkéhr Duìl, e vivere nel nostro mondo"
Conclusa: No
Fanfiction pubblicata il 21/03/2008 17:33:23
ABCABCABCABC
PROLOGO
<i>Questa è la storia che è stata cancellata dagli almanacchi del tempo. Insabbiata da granelli di oblio, abbandonata alla furia dei venti, questa verità, si è corrosa sotto i colpi dell’ignoranza ed è stata lasciata a fluttuare tra i mari dei pregiudizi e dei falsi dogmi. Le realtà che in essa si celano rischiano di andar perse per sempre, lasciando il mondo nel suo stato di caos confusionario.
Il cantore che ha ritrovato questa storia, e che umilmente si presta a narrarvela, non è degno di portare un nome, e non si presenterà. Non ha nessuna importanza nello stendersi della vicenda. Non vi ha mai preso parte, nonostante la lettura gliene abbia fatto venire voglia. Non ha guardato gli occhi della morte, e nemmeno i suoi soldati. E’ sempre stato fedele alla sua vita, ma ora ha deciso che la sua esistenza debba essere dedicata all’Arte. E non c’è Arte migliore di questa straordinaria testimonianza. Per questo, nel nome dell’Arte, nessun altro nome è necessario, neanche quello di chi, all’arte, si è sottomesso. Lascerà che sia l’opera a parlare per lui e si nasconderà dietro l’impersonalità di un narratore che tutto sa, ma che niente ha creato.
Questa storia, in fin dei conti, è per voi che la leggerete.</i>
***
“e una volta che si è caduti…
Fin dove bisogna precipitare?”
Trigun
Era l’alba.
Nessun gallo però sembrava volenteroso di volerla annunciare con il suo canto stridulo e fastidioso.
Il sole stava nascendo da qualche parte dietro la linea dell’orizzonte, mentre le nuvole, che fino a quel momento erano rimaste nascoste dietro il velo della notte, cominciavano a colorarsi di un rosa tenue che davano al mondo le sembianze di una favola.
Le strade erano ancora deserte: gli ignari abitanti di quella piccola ridente cittadina se ne stavano a letto, impreparati ancora ad iniziare una nuova giornata che li avrebbe portati a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte o con la truffa.
Era una scelta che spettava loro.
Ed io non dovevo far altro che indirizzarli verso quella giusta.
E ovviamente quella giusta, per il sottoscritto, era quella che percorrevo anche io.
Sapete, non mi sono mai pentito di quello che ho fatto nella mia vita.
Sono stato crudele e spietato, ma mai incoerente da rinnegare ciò che sono.
Ho letto molte storie che parlano di animi crudeli che poi, al primo momento disponibile, fanno marcia indietro per salvare se stessi, dalla solitudine o dall’oblio.
Questo tipo di pensiero non mi ha mai sfiorato.
Sono sempre stato convinto che, seppure il mio animo sia profondamente malvagio, esso non manca di quelle sfumature che mi permettono di essere e di vivere in pace con me stesso.
Io faccio il mio lavoro, come un automa soddisfatto eseguo i compiti che mi vengono affidati, con gli occhi rivolti verso la meta che da secoli anelo, ma con il cuore che è sempre sottoterra, lontano dal sole e lontano dall’amore quale voi lo conoscete.
Per secoli mi sono trascinato su questo mondo con il chiaro intento di dannarvi, per salvare me.
Costretto in un mondo fatto di tenebra, non volevo altro che il sole.
E le mie orecchie, abituate ai lamenti e alle urla, desideravano le sinuose danze d’arpe e violini, e la dolce armonia che esse emanavano.
Eppure, ho sempre saputo, in qualche parte recondita di me stesso, che se anche avessi raggiunto quello che dicevo di desiderare non sarei stato contento.
Perché quello che più volevo al mondo lo avevo già.
E lo avevo da sempre.
Un luogo da chiamare casa, e sentirla come tale.
Forse avrei dovuto cominciare questa storia con la formula fiabesca “c’era una volta”: forse solo in questo modo potrei rendere verosimile un racconto di cui non si conosce il punto iniziale e, Dio e Satana mi sono testimoni, di cui certamente non si conosce la fine. Una storia che si svolge in uno spazio che non conosce confini, che si perde oltre la linea dell’orizzonte, giu fino ai limiti dell’universo, e anche più in là ancora. Uno spazio che allunga le sue mani verso il cielo e verso la terra, affondando le sue dita anelanti nel sole come nella tenebra.
Il mondo che conosco io è un mondo abitato da molte creature, differenti tra loro e guidato da così tante regole che è fin troppo facile eluderne molte.
Allora forse sarebbe meglio farvi credere che questo non è altro che il racconto di una fiaba, una sorta di racconto d’inverno da cantilenare quando non si riesce a prender sonno davanti ad un camino acceso che manda ombre in un contesto che di colpo appare perturbante, strano, spaventoso.
Vedete, il fatto è che se rendessi questa storia una semplice, sciocca e futile invenzione di uno scrittore squattrinato, forse sarebbe più facile farmi comprendere.
Perché se vi dicessi la verità, se vi dicessi che, in realtà, tutto quello che, se vorrete, leggerete tra poco, appartiene a me, alla mia vita, alla mia quotidianità, forse non mi credereste.
E probabilmente io neanche troverei le parole per descrivervela.
Come potrei, infatti, parlarvi della meraviglia del luogo in cui sono nato, in cui sono stato creato, se voi non ci vedete altro sofferenza e dolore?
La verità è che tutto il mondo o, meglio, tutti i mondi, si basano sul tema delle percezione.
Fin dall’inizio del mondo all’uomo è stato fatto credere che potesse scegliere.
Stare da questa parte oppure dall’altra.
Vi sono state raccontate tante belle favole, secondo cui voi sareste liberi di scegliere a quale schiera di questa guerra appartenere.
Ma non è così.
Il vostro percorso è sempre stato tracciato.
Voi siete obbligati a percorrerlo.
E per chi non lo fa…c’è la dannazione eterna.
La punizione.
Non mi sembra che questo sia davvero libero arbitrio.
Voi potete solamente scegliere di seguire la corrente o meno. Ma se decidere di svincolarvi da una scelta che vi viene imposta da quando siete nati, quando non potete davvero scegliere, allora non sarete liberi di vivere la vostra scelta, ma verrete puniti, etichettati e messi al bando.
Voi amate il cielo, ma non sapete quanto sia così vicino alle fiamme.
Tuttavia, per paura di scottarvi, di bruciarvi con il sole sacro della verità, vi rifugiate in una scelta costruita e ben sperimentata, che vi permetterà di passare senza troppi guai per la grande avventura della vita.
Con questi presupposti, io so benissimo di non potervi convincere che il mondo da cui provengo è in realtà magnifico nella sua grandiosità, che il Signore che lo governa è il miglior padre che un uomo qualsiasi possa desiderare. Non posso farvi credere che ogni volta che varco il cancello dominato da due grandi lupi neri, io senta il rimorso di uscire per una missione che mi dovrebbe portare dove desidero, ma che in realtà mi allontana dal luogo in cui ogni volta voglio poter tornare.
Questo però non vuol dire che io non svolga il mio compito.
Sono un soldato, e le missioni che mi vengono affidate le svolgo con il massimo impegno e con il chiaro intento di uscirne vittorioso.
Per più di mille anni, mi sono mescolato a voi, giocando a dadi con la vostra vera vita, quella che comincerà dal momento in cui vi libererete dalle vostre spoglie mortali, fatte di carne e ossa, di sangue e sale. Per anni mi sono avvicinato alle personalità che meglio potevano servire il mio Signore, o quello che, per contraddizione, potevano aiutare il nostro Nemico. Io ero sempre lì, nei momenti in cui la Morte si affacciava, a tendere una mano verso il mio mondo. E quando questo invito non viene accettato, allora la mia punizione si allunga, ma sono arrivato alla conclusione che non ci può essere per me punizione peggiore che quella di essere portato via da Hell City, l’Inferno, l’antro della Bestia, o come volete chiamarla.
Quella che noi, nella nostra lingua dimenticata, chiamiamo Splendore di Fuoco: <i> Hirkéhr Duìl </i>
Ma forse è meglio cominciare questa storia, prima che giunga al termine. Ho raccolto le mie testimonianze e quelle delle persone che hanno caratterizzato quel periodo della mia vita. Ho creato un puzzle di timori e di sotterfugi, di speranze e di tradimenti. Un puzzle, alla fine, fatto d’amore.
Un amore che non si semplifica nell’incontro di due anime gemelle.
L’amore che troverete descritto in queste pagine, sarà un amore passionale, una condanna a morte, vendicativo, maledetto, impossibile. Un amore che taglia e distrugge, che separa invece di unire.
Un amore grandioso, forse troppo grande per essere incatenato dai limiti delle parole, ma che invece dovrebbe volare nell’universo, libero e maestoso, come un tango perfetto ma estenuante.
***
Parigi,
14 Ottobre 1793
La donna scese le scale con la massima eleganza.
Nonostante il viso dagli zigomi troppo sporgenti, gli occhi infossati, e la pelle che ormai aderiva troppo palesemente alle ossa, la donna, che doveva avere meno di quarant’anni, era ancora bella ed affascinante. I suoi modi non lasciavano trasparire la paura che muoveva i suoi passi, e il cuore in petto, che correva una folle corse senza pause, veniva messo a tacere dal tacco che risuonava sui gradini di pietra.
Niente in lei segnalava quanto in realtà fosse spaventata.
Sebbene tutti lo pensassero, lei non era una sciocca. Aveva capito quale sarebbe stato il suo destino il giorno che venne sventata la sua fuga da Parigi, quando bloccarono le sue speranze a Varrennes - en - Argonne. Da quel giorno in poi, allontanata da suo marito e strappata da suo figlio, aveva capito che non c’era più salvezza in cui sperare, se non in quella del buon Dio. Avrebbe rivolto a Lui le sue preghiere, Gli avrebbe dedicato tutte le sue lacrime, avrebbe ringraziato per ogni umiliazione, per ogni misero schiaffo, per tutto il dolore che provava. E solo Lui sarebbe stato il testimone della sua paura, di quel timore che, durante le ore notturne, le impediva quasi di riposare. Davanti al popolo avrebbe continuato ad essere la monarca educata ed elegante, quella che aveva suggerito di cibarsi con delle brioches, quella che giocava d’azzardo fino a tarda notte, che aveva amanti fuori dal letto coniugale. Sarebbe stata quella che loro volevano che fosse, perché ormai non c’era modo di evitare l’inevitabile. Ma quando si inginocchiava davanti l’austero crocefisso in legno, quando i suoi capelli quasi completamente bianchi le ricadevano sulle spalle senza ordine, allora poteva essere semplicemente Marie Antoine Josephine, una donna, una moglie e una madre. Metteva da parte il peso di una corona che ormai sembrava non avere più molta importanza, e diventava una semplice prigioniera che esprimeva a Dio le sue paure, le sue ansie per il futuro, quando lei non ci sarebbe stata più per proteggere sua figlia.
Il pensiero di lasciar sola Marie Therese era quello che la ossessionava di più. Madame Elisabetta, sua cognata e amica, presto probabilmente avrebbe fatto la sua stessa fine. Allora che ne sarebbe stato di sua figlia? Avrebbe perso i genitori, il fratellino e anche l’ultima parente che le rimaneva al mondo. Sarebbe stata sola in balìa della follia degli uomini. Le sue mani tremavano di rabbia quando pensava a quello che avrebbero potuto fare a Marie Therese, ormai priva di difese. E il suo cuore ancora piangeva quando ripensava al momento in cui Louis Charles, suo figlio, le era stato strappato, portato via con la forza. La notte ancora sentiva le grida e le suppliche di suo figlio, che chiedeva di non essere strappato da sua madre, di poter restare con lei. E allora Marie si svegliava in preda all’agitazione, con la veste tutta sgualcita e la fronte madida di sudore.
Aveva vissuto un inferno in tutti quei mesi.
Eppure nel momento in cui si trovò davanti il Tribunale Rivoluzionario, sembrava ancora un’aristocratica che non conosceva il suo popolo e che da esso non poteva venir scalfita. Ascoltò tutte le accuse che le vennero mosse, e si difese ardentemente, con dignità. Accolse le accuse farsesche e prive di fondamento, ascoltò i giudici che le puntavano il dito contro chiamandola incestuosa, profanatrice e maledicendola per aver amoreggiato con il figlio di otto anni. Erano accuse così squallidamente false che difendersi da esse sembrava quasi una follia.
E dal momento che non c’era niente di cui difendersi, di cui giustificarsi, la vecchia sovrana preferì rimanere in silenzio.
«Messieurs, dal momento che siete ben decisi a condannarmi, qualsiasi cosa io dica, sarà meglio che rimanga in silenzio. Dio stesso mi è testimone che non mi sono mai macchiata dei crimini di cui questa assemblea mi accusa con tanta leggerezza.»
«Dio?» gridò uno degli uomini con la parrucca bianca ben incipriata e con l’aria pulita e sana di chi non deve mai vedersela con dei fanatici che vogliono la sua testa. «Come osate appellarvi a Dio dopo esservi venduta l’anima nel giacere con il vostro delfino? Avete disprezzato il popolo che Nostro Signore vi ha dato, avete ballato sulle spalle di una Francia sempre più in ginocchio e, alla fine, non trovando altri divertimenti, avete sedotto vostro figlio. Con tutte queste colpe come osate anche solo pensare al nome di Dio?»
«Per le colpe contro la Francia che voi enunciate, monsieur» continuò Maria, facendo un piccolo inchino «ho chiesto perdono a Nostro Signore e all’Assemblea. Mi sono inchinata davanti al potere del popolo e della Francia stessa. Sono stata incoronata regina quando non ero ancora pronta per essere una semplice donna e i miei errori e le mie colpe sono state innumerevoli. Ma tutto il resto, il male che mi accusate di aver fatto a mio figlio, non merita una risposta, ma esigerebbe delle scuse.»
Qualcuno rise in fondo alla stanza.
Sembrava una risata divertita, ma non malvagia.
La risata di chi è quasi del tutto estraneo alla vicenda, ma che sa bene di cosa si parla.
Tuttavia la condannata non ci badò più di tanto.
«Voi esigereste delle scuse?»
«Avete innalzato i valori di uguaglianza, fratellanza e libertà. Avete distrutto i templi e le opere d’arte per dar vita al tempo della Ragione, dove l’uomo domina se stesso, dove non esiste monarca e dove non esiste Dio. Siete voi che dovreste aver paura di pronunciare il Suo nome, voi che l’avete rinnegato e sbeffeggiato in nome di una libertà che Egli stesso vi ha dato nel momento stesso in cui vi ha creato. E offendete l’uguaglianza, trascinandomi davanti ad un processo che non merita neanche di portare questo nome. Sono al centro di una sala piena di magistrati, eppure mi sento come se fossi al centro di un palcoscenico. Questa non è legge, questa non è uguaglianza. Si tratta di una farsa che avete messo in scena, tradendo i vostri stessi valori, per poter così mettere a tacere le vostre coscienze nel momento in cui mi toglierete la vita. Potrete dormire sonni tranquilli, senza che le mie grida, o il volto dei miei figli possano disturbarvi, dal momento che mi permette di difendermi. Ma è difesa questa? E’ possibile difendersi quando le barriere dei pregiudizi sono così alte da scavalcare? Potrei dire quello che più mi aggrada, che sia verità o menzogna, ma non basterebbe comunque a liberarvi da quell’odio cieco che vi fa essere incoerenti oltre che ingiusti. Ebbene, se devo morire per il bene della Francia e perché questo è il volere di Dio, allora così sarà. Io non sono nessuno per potermi ribellare a due simili forze. Tuttavia se devo morire, voglio che sia per delle ragioni che abbiano una concretezza, non per delle bugie che, lo sa il Cielo, avete messo in bocca a mio figlio, o che comunque vi siete inventati di sana pianta. »
Nella sala calò un silenzio di ghiaccio.
Molti dei magistrati avevano i volti così deformati dalla sorpresa che sembravano inquietanti statue di cera, immobilizzate in un urlo senza voce. I sapienti uomini alle spalle della regina, si guardavano l’un con l’altro senza sapere cosa poter dire contro quel discorso che, di colpo, aveva minato le loro certezze e il motivo per cui, da anni, stavano combattendo.
Poi il presidente del Tribunale si schiarì la voce, e quel suono rauco e fastidioso, parve spezzare l’incantesimo gettato dalle parole di Maria Antonietta.
«La vostra lingua corre su un percorso pieno di lame, Madame.» commentò «i vostri pensieri sono troppo liberi e il vostro cuore menzognero. Accusarci di tradire questa sacra Assemblea, e di muoverci senza prove e solo per nostro bene è accusare la Francia intera, di cui questo tribunale è rappresentante. Ve lo chiedo per l’ultima volta, Madame: avete giaciuto con vostro figlio, rinnegando il nome di Dio e del nostro Paese?»
La donna sospirò.
La fine era arrivata. Aveva provato ad appoggiarsi sui valori, sulla fede…ma non c’era niente che quegli uomini potessero capire se non il loro egoismo. E forse neanche quello.
Erano come quei cavalli da corsa, provvisti sempre di due membrane, ai lati degli occhi, che gli impedivano di guardare ai lati. Quegli uomini erano uguali. Non si interessavano di quello che accadeva intorno alle loro belle case e ai loro beni. Si ergevano a difesa della Francia, ma presto avrebbero cominciato a comportarsi esattamente come gli aristocratici alla corte di Versailles. Guardavano avanti verso il loro miglioramento, e non capivano in quale trappola stavano cadendo.
Ma ormai quello non era più un problema che la riguardava.
Avevano deciso di darla in pasto all’immortalità dello spirito, e lei non anelava altro che riunirsi con il suo Creatore, baciare i suoi piedi e chiedere perdono per gli sbagli che aveva fatto quando ancora non era adolescente.
«Quello che avevo da dire è già stato pronunciato dalle mie labbra. Se le mie parole non hanno il potere di farvi svegliare dall’incantesimo del potere, io non posso aggiungere altro. La mia vita e quella della Francia è in mano vostra.»
Di lì a pochi minuti venne dato il verdetto.
Morte.
Parigi
16 Ottobre 1793
Alba
Le campane di Notre Dame risuonarono in lontananza.
Maria Antonietta aprì gli occhi giusto in tempo per vedere un raggio squarciare il bianco manto di una nuvola che ignara passeggiava per l’azzurro cielo. Probabilmente sarebbe stata l’ultima meraviglia della Natura che avrebbe visto. Si sforzò di non piangere, per non svegliare sua figlia, che, rannicchiata come uno scricciolo, dormiva tra le sue braccia. Quanto le sarebbe costato allontanarsi da quelle braccia sottili, dal volto rattristato di una bambina che aveva sofferto troppo e troppo presto. Ma da un momento all’altro il Prete sarebbe giunto per confessarla un’ultima volta, e poi avrebbe cominciato la sua ascesa al cielo, passando per il dolore della terra.
Doveva concentrarsi su questo e cercare di rimanere calma.
Nessuna sofferenza in quel mondo, avrebbe mai potuto reggere il confronto con il mondo che l’aspettava oltre la linea del cielo che la sovrastava.
Il suono metallico di passi sulla scalinata che portava alla cella, le fece venire i brividi.
La porta si aprì con un sinistro cigolìo e prima che lei potesse dire o pensare qualcosa, o anche solo vedere qualcuno, una voce sottile, dal perfetto accento francese, la esortò a seguirlo.
La vecchia regina di Francia soppesò l’idea di svegliare Marie Therese e di dirle addio. Ma forse era meglio così, sparire nell’oscurità della notte, rendersi invisibile al giorno.
Risparmiare al sangue del suo sangue il momento dell’addio.
Probabilmente l’avrebbe odiata, ma forse un giorno, se fosse riuscita a sopravvivere, avrebbe capito.
Con movimenti lenti e cauti, la donna si liberò di quell’abbraccio tanto dolce, e, dopo aver carezzato con lo sguardo il corpo di sua figlia e quello di sua cognata, si diresse verso la porta, pronta a seguire lo sconosciuto.
Scese i gradini velocemente per non perdere il passo.
Lo straniero che la procedeva le dava le spalle, perciò Maria Antonietta non riuscì a vederlo in viso.
Aveva gambe lunghe ad affusolate, delle spalle larghe e simmetriche. Lunghi capelli neri, fulgidi come l’oscurità opprimente e come il pelo dei corvi che si cibano di morte, erano tenuti stretti in una lunga treccia che dondolava lentamente seguendo i movimenti del corpo. L’uomo vestiva una lunga tunica nera, che gli arrivava più o meno all’altezza delle caviglie. Sulla schiena vi era un disegno stilizzato: una lunga linea bianca con due ali ad entrambi i lati. Maria Antonietta immaginò che si trattasse di un cigno.
Arrivati al secondo piano di quell’immensa torre, lo straniero svoltò a sinistra. Lei continuava a seguirlo senza capire. Le possibilità erano due: o era il prete venuto a confessarla, oppure un soldato che doveva accompagnarla al patibolo. Eppure stava voltando verso l’ala in cui si trovavano le stanze migliori di quella costruzione.
Che cosa stava accadendo?
Senza aver cuore di sperare, né di porre domande, continuò a seguirlo, a qualche passo di distanza.
Sapeva che non poteva essere una guardia o un soldato.
Quello strano abbigliamento non era quello tipico dell’esercito francese.
E di sicuro non aveva l’aria di un prete.
Quella tunica era troppo lunga e quel disegno stilizzato sulle spalle troppo assurdo per essere cristiano.
Chi mai poteva essere?
Si avventurarono per un lungo corridoio, rischiarato dai raggi che cominciavano a filtrare dalle feritoie e dalle alte finestre. Qua e là ardeva ancora qualche fiaccola e la penombra spariva man mano che i minuti passavano, lasciando il posto ad una luce morbida e diffusa. Lo sconosciuto aprì una porta in fondo a quel lungo rettilineo e aspettò che anche lei entrasse, prima di chiuderla.
Maria Antonietta si trovò così in una stanza che, pur non essendo neanche lontanamente paragonabile a quelle a cui lei era abituata, era senz’altro molto più piacevole della prigione nella quale era costretta a vivere da così tanti mesi. Ma non era la stanza ad accendere tutta la sua curiosità. Di mobili e tappezzeria in quel momento non gliene fregava nulla. Ormai si era così disabituata al lusso che non ne era più interessata.
Il suo sguardo era tutto verso l’uomo che era davanti a lei.
Aveva un volto affilato, ma bello.
L’incarnato pallido era sovrastato da un naso aquilino, dalle labbra ben disegnate e dagli occhi grandi. L’occhio destro era semicoperto dalla lunga frangia nera, mentre il sinistro brillava in tutta la sua meravigliosa sfumatura lilla.
La prigioniera fece un passo indietro quando notò il colore di quegli occhi, così improbabili sulla terra dei vivi e dei pii di cuore. «Occhi…occhi del crepuscolo… » Bisbigliò.
L’altro sorrise, portandosi una mano al cuore.
In quel punto un bocciolo bianco di rosa troneggiava tranquillo.
«Sapevo che eravate molto devota a Dio, ma non sapevo che foste così…colta.» disse l’uomo, ridendo. Allora la regina ricordò quella risata, la stessa che aveva sentito nel momento in cui, in tribunale, cercava di difendersi.
«Chi siete?» chiese, cercando di apparire calma.
«Perdonatemi, maestà. La vostra bellezza mi ha fatto dimenticare le buone maniere. Io mi chiamo Tyresiae»
«E’ il nome dell’indovino nell’Edipo Re.» commentò la donna, spulciando i suoi ricordi di quando era una bambina con un tutore che doveva forzare la serratura del suo cervello per farle entrare il maggior numero di nozioni possibili.
L’altro rise ancora. «In effetti Sofocle rimase molto impressionato quando mi conobbe. Mi ha dato la sua anima per quell’opera, ed io gentilmente ho lasciato che usasse il mio nome.»
«Cosa? Non vi capisco…come avete potuto incontrarlo? Se così fosse voi dovreste avere…»
«Molti più anni di quelli che sembrano.» concluse Tyresiae. «La realtà è che i miei occhi lasciarono senza fiato quello scrittore squattrinato. Occhi in grado di carpire l’ombra, che vedono ciò che nessun altro può vedere. Che sanno guardare oltre i limiti della vista. Per un indovino cieco ammetto che era un nome davvero adatto. Ma scusate, non sono qui per parlarvi di me.»
La gola della regina era asciutta.
Si sentiva come se di colpo non fosse più in grado di parlare.
«Forse vi starete domandando perché mi trovo qui.»
La sovrana annuì, incapace di articolare neanche un monosillabo.
C’era qualcosa in quell’uomo che la terrorizzava, ma dalla quale era contemporaneamente molto attratta.
«Ebbene, sono qui per porvi quella scelta che è stata rinnegata sin dalla nascita, quando, prima ancora che voi poteste decidere vi hanno fatto camminare su di un percorso che forse non era stato fatto per piedini così gentili.»
Come un pesce all’amo la donna si guardò i piedi.
Poi tornò a concentrarsi sulla persona che aveva davanti.
«Che volete dire? Di cosa state parlando?»
Tyresiae coprì il perimetro della stanza con pochi, grandi, slanciati movimenti. «Parlo della vita che vi aspetta. Parlo di quello che si potrebbe avere dopo la morte. Perché lo sapete, Madame, è questo quello che vi aspetta. Quando a Notre Dame suoneranno le nove del mattino la porta della vostra cella si aprirà per l’ultima volta, e voi verrete trascinata fuori alla luce del sole per rimirarlo un’ultima volta prima di cadere nelle tenebre. Questa mattina voi morirete. Io sono qui per aiutarvi a scegliere quale strada prendere.»
«Continuo a non capire.» Proseguì Maria Antonietta, seguendo i movimenti dell’altro. «Siete forse un angelo?»
Sul volto di Tyresiae si dipinse un’ombra di disprezzo. «Sono così banale da sembrarvi un angelo? No, mia cara signora. Non c’è niente in me che sia angelico. Né i miei occhi di crepuscolo, né il colore dei miei capelli, né l’abito che porto…tantomeno l’uomo che io servo.»
Ci fu qualcosa nel modo in cui lo sconosciuto pronunciò quelle frasi, che spinse Maria Antonietta a fare un passo indietro. C’era qualcosa di profondamente sbagliato nell’uomo che la fronteggiava.
Eppure era al contempo così magnetico, così colmo di fascino che, nonostante fosse arretrata, non riusciva a smettere di seguire la sua fisionomia con sguardi adoranti.
«Monsieur, non fatemelo chiedere un’altra volta. Sono troppo stanca per lanciarmi in un gioco di società e di mondanità. Chi siete?»
«Ebbene, » cominciò Tyresiae spostando la frangia che gli copriva l’occhio in un gesto che sembrava essere abituale. « dal momento che il tempo scorre e che non ne rimane molto per convincervi con seducenti parole, eccovi la verità. Io sono il servitore più fedele di Lucifero.»
La donna si portò una mano davanti alla bocca.
La sua fede stava barcollando.
Aveva pregato fino alle lacrime e al sangue il suo Dio, aveva accettato tutto il destino che le aveva messo davanti, gli schiaffi, le umiliazioni. Tutto perché aveva fiducia in Lui, nella Sua onesta misericordia. Per poi trovarsi di fronte cosa? Chi?
Un demone?
La risata cristallina di Tyresiae incrinò maggiormente le sue certezze. «Posso comprendere che per voi sia uno shock immenso venire a contatto con un messaggero di colui che ingiustamente chiamate Maligno. Ma lasciate che vi spieghi tutto…»
Istintivamente Maria Antonietta si portò le mani alle orecchie.
«Non voglio udire una parola in più, Monsieur. Vi prego di abbandonare questa stanza e di lasciarmi da sola, in modo che possa preparare la mia anima a quello che, come voi giustamente affermate, mi aspetta.»
Chiuse gli occhi, timorosa che in essi potesse celarsi un altro tipo di preghiera.
Perché quell’uomo era bello, era affascinante, e lei non era stata trattata da donna da troppo tempo.
Aveva quasi dimenticato il calore di effusioni affettuose, la sensazione di un uomo che si muovesse dentro di lei, con l’impeto della passione e della carne.
Aveva paura che in quegli occhi affamati potesse celarsi il desiderio per quello strano essere.
Così chiusa al mondo, Maria Antonietta non si accorse dei passi di Tyresiae che si avvicinavano, e sobbalzò quando sentì le mani gelide chiudersi intorno ai suoi polsi.
Aprì gli occhi di scatto.
Tyresiae la spinse ad allontanare la mani dalle orecchie.
«Se anche diventaste sorda troverei comunque il modo di comunicare con voi. Conosco il vostro corpo come fosse uno strumento, e vi assicuro che sono un ottimo musicista.» L’uomo si abbassò, fino a sfiorare con il suo respiro l’orecchio destro della vecchia Regina, che si paralizzò all’istante. «le mie dita gelide sanno come dare calore ad un corpo assetato.»
Le gote di Maria Antonietta avvamparono.
«Ma ora, » proseguì Tyresiae con la sua voce sinuosa e sensuale « è assolutamente necessario per me portarmi all’imbocco di un bivio… Voi dovete solo scegliere quale via percorrere. Non sono qui per mentirvi o per gettare fango su Colui in cui ponete una così cieca fiducia. Io sono qui per tentarvi, per farvi conoscere la realtà del mio mondo. Hirkéhr Duìl, lo Splendore di Fuoco. Madame, esistono due mondi. Il mio, fatto di crepuscoli e stelle, dove la luce prende per mano la tenebra, dove si combatte –perdonate il gioco di parole – alla luce del sole. I nostri intenti sono aperti a tutti. Dall’altra parte, in quello che noi chiamiamo Yashred Duìl, lo Splendore di Neve, e che voi chiamate paradiso, c’è un mondo immacolato, ma privo della fiamma della passione, privo del fuoco della sincerità. Un mondo patinato e freddo, nel quale le giornate e le ere scorrono imperscrutabili. Si nascondono dietro una facciata di perfezione, ma alla fine dei conti sono burocrati e soldati proprio come noi. La loro strategia è quella di manipolare voi umani dalle loro alte sfere, facendo leva sulla tradizione che vi incatena. Non vogliono sporcarsi le mani scendendo nel vostro mondo, si ritengono troppo superiori e troppo potenti per rischiare una discesa. Noi invece siamo diversi. Noi non abbiamo la tradizione dalla nostra. Costantino ha dato potere alla Cristianità. Nel consiglio di Nicea, il vecchio Imperatore ha scelto di aggraziarsi i martiri cristiani. Sapete per quale motivo? Perché il principe di Yashred Duìl gli fece visita e gli promise la gloria eterna. Il mio popolo all’epoca era ancora così ingenuo da credere nella lealtà dei loro rivali. Si era parlato di libero arbitrio, all’origine del mondo. E dopo la lunga e corroborante guerra d’insediamento, si era deciso che un’anima avrebbe potuto scegliere autonomamente la dimora per l’eternità. Ma non andò così. E con quella mossa, il Signore di Yashred Duìl ci ingannò e fece in modo che il mondo considerasse loro il bene o noi il male. Con il passare degli anni ci siamo organizzati anche noi, e mentre loro adesso se ne stanno sdraiati sulle loro menzogne, noi ci diamo da fare per portare la verità in mezzo a voi.»
«E quale sarebbe, monsieur?» chiese la vecchia regnante, sperando che la sua voce non mostrasse la tensione nella quale imperversava. «Che Dio è il male e Lucifero il bene?»
«No, la verità è che, come nel vostro mondo, anche nei nostri il confine tra le due cose non è così netto. Rimane il fatto che fu il re dello Splendore di Neve a gettare nell’abisso Lucifero. La sua bellezza…era questo il reato, giusto? Bene, allora quale misericordioso Signore condannerebbe a morte un angelo solo perché è tanto bello quanto potente? La realtà è che il vostro Dio si sentiva minacciato: aveva paura che il suo esercito potesse subire il fascino di Lucifero e muovere una rivolta contro il loro creatore. Noi non siamo né buoni né malvagi. O, se vuole, siamo entrambi.
Ma almeno lo siamo in modo onesto. Ed ora sono qui per chiedervi se volte varcare, insieme a me, il cancello di Hirkéhr Duìl, e vivere nel nostro mondo.»
Maria Antonietta non parlò.
Il suo cervello stava valutando troppe opzioni: credere o meno, a chi, a cosa.
Troppi interrogativi e troppo poco tempo per trovare una soluzione.
«Se il Dio in cui voi credete così tanto è così buono, perché allora al mondo ci sono tante guerre? Perché la Francia, la Signora di tutti i popoli, è piegata da una rivoluzione che porta più morti che soluzioni? Perché vostro figlio è stato strappato dalle amorevoli mani di una madre che l’adorava? E perché voi, così giovane e così innocente, dovete andare al patibolo?»
La donna si mostrò offesa. «Non possiamo incolpare il buon Dio della malvagità degli uomini.»
«Perché no? Dopotutto la Bibbia recita <i> Ed Egli lo creò, a Sua immagine e somiglianza. </i> Se l’uomo è lo specchio di Dio, cosa dovreste pensare di questo misericordioso Salvatore? E ditemi, pensate davvero che la vostra fede vi salverà? O meglio…pensate che potrà salvare vostra Figlia? Nelle migliori delle ipotesi riuscirà a sopravvivere solo per diventare il divertimento di un esercizio, battuta e violata da uomini sporchi e sudici…Per poi essere gettata tra le braccia della morte quando sarà così stanca da non riuscire più neanche ad aprire le gambe.» sentenziò Tyresiae, devastando i suoi bellissimi lineamenti in una smorfia di rabbia. «Siete così sicura che al momento della vostra morte, con i vostri piaceri carnali e lussuriosi, la porta del Paradiso si aprirà per voi? E se anche fosse, siete sicura che da lassù qualcuno possa davvero difendere vostra figlia? Perché lei, innocente come voi, dovrebbe essere così fortunata? Marie Therese non avrà nessuno, e dovrà sopravvivere con le proprie forze. Forze che non serviranno, quando la macchina del destino segnerà che anche lei, proprio come voi, dovrà morire. Soffrendo.»
Gli occhi di Maria Antonietta si erano riempiti di lacrime.
Quell’uomo aveva dato voce alla sua maggior paura.
Aveva già perso un figlio e non voleva in nessun modo perdere l’altra.
Lei doveva morire, questo era certo, ma sua figlia?
Come avrebbe potuto andare avanti in un mondo che sembrava ormai sull’orlo della follia?
«Voi…voi potete salvare mia figlia?»
Tyresiae sorrise rassicurante. «Ho il potere per metterla in salvo, e far in modo che possa avere una vita lunga e serena. Posso darle il futuro che a voi è stato sottratto.»
«E cosa devo fare io?»
«Basterà sigillare il contratto. Se lo volete.»
Passarono altri istanti, poi, lentamente, Maria Antonietta annuì.
Allora Tyresiae si avvicinò di qualche passo.
Poggiò la mano dietro la nuca della Regina di Francia e spinse il volto contro il suo. Un attimo dopo stava aprendo la sua bocca con la lingua, e quando Maria Antonietta spalancò le labbra per cogliere quel bacio, spingendo il corpo di Tyresiae contro il suo, quest’ultimo affondò i denti nella lingua della donna, e bevve a lunghi sorsi il sangue che ne scaturì. Bevve e bevve, finchè rimase abbastanza sangue per permettere alla donna di tornare indietro.
Un’ora dopo a Place de la Concorde, sotto gli occhi di una folla urlante, la testa di Maria Antonietta venne recisa di netto dal collo sottile ed elegante.
Sul suo volto, un ultimo inquietante sorriso.